Accattone di Pier Paolo Pasolini

"Eppure che è la fame? Un vizio! È tutta un'impressione! Ah, se nun c'avessero abituati a magnà, da ragazzini".

Sono gli anni dell’Italia che vuole scordare le angherie del Fascismo, la povertà e la fame causate dalla guerra, di un Paese che si affaccia in una nuova era: quella delle vacanze, dell’automobile che corre veloce verso il mare con Gassman e Trintignant, quell’Italia che sogna il cinema e la dolce vita di Fellini. Tra queste due pellicole che rielaborano in modo seppur diverso il fallimento di una classe borghese ancora in fasce, Pasolini fotografa un’altra faccia della società, quella del sottoproletariato. 
In Accattone Pasolini racconta i figli delle borgate, degli uomini e delle donne che si spostano dai piccoli centri e riempiono le periferie delle grandi città in cerca di un nuovo benessere che, però, non è per tutti. Pasolini dà luce proprio a questi tanti che l’altra Italia, intrinsecamente terzomondista, cerca di nascondere come polvere sotto un tappeto. 
Accattone (Franco Citti) non è il povero di De Sica, che guarda al futuro con speranza, che cerca di mantenere una sua dignità. Accattone è il povero moderno che subisce la sua condizione; Pasolini lo segue nelle sue giornate che scorrono lente, nel suo presente che è già passato. La strada polverosa, arida, spoglia è come la metafora dell’interiorità di Accattone e della condizione sociale di un Paese che in poco tempo ha lasciato una società rurale e si avvia verso un’industrializzazione malata.
Niente è concesso, tutto è sfruttato: solo le donne cercano almeno di riscattarsi, come Maddalena (Franca Corsini) o di sognare una vita dignitosa come Stella (Franca Pasut). Sarà proprio quest’ultima che accenderà una piccola fiamma di cambiamento nell’animo di Accattone, destinata però a spegnersi subito. 
Accattone non si accetta né si condanna, Pasolini lo fa approcciare allo spettatore in modo scientifico. A lui non è concessa neanche l’aggettivazione del sentimento è disumanizzato dalla società in cui vive, costretto a un’alienazione perpetua da cui non c’è prospettiva. E’ destinato solo alla morte: forse unica liberazione di un uomo che non c’è.
Mezzo secolo ci divide da questa pellicola, che potrebbe essere stata realizzata domani, se solo disponessimo ancora di menti accorte com'era quella di Pasolini. Un uomo, prima ancora che un regista nel senso stretto del termine che, mentre si manifestavano speranze, filmava un seme malato dell’Italia. 
Questo seme negli anni è stato ben annacquato e si è trasformato in una pianta con salde radici difficili da estirpare. E in una cornice cambiata, dove le strade non sono più di terra ma di asfalto, gli Accattoni continuano a muoversi nello stesso modo. E Pasolini, che come tutte le belle menti, non ha tempo, con questa pellicola ci lascia la consapevolezza che un uomo senza cibo né per lo stomaco né per la mente, sarà costretto a camminare in un lungo e immaginario circolo dove tutto è condannato a rimanere immutato.



" Fare un film significa migliorare la vita,
sistemarla a modo proprio, 
significa prolungare i giochi dell'infanzia"

François Truffaut

I Colori di Almodóvar

«A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre»

Da Tutto Su Mia Madre

Il colore è una costante significativa nell’opera di Almodóvar: da Pepi, Luci, Bom… (1980) a Gli abbracci spezzati (2009), la fotografia vivida e le scenografie al limite del kitsch  — se vogliamo intendere questa parola nella sua connotazione positiva —  riconduce a livello espressivo i contenuti spesso violenti delle sue pellicole.
Fin dagli albori della carriera, Almodóvar si è distinto come il regista dei proscritti, tessendo storie fatte di passioni sanguigne e di amori al limite che s’intrecciano, però, con la quotidianità: anche quando i suoi protagonisti fanno parte di cerchie marginali non sono avulsi dalla società, ma vivono nella concretezza del mondo reale. Ad accoglierli è lo sfondo di una Spagna mediterranea, con la sua musica, i suoi profumi, la sua gente ricca di un passato complesso e contraddittorio; da tale contesto culturale il regista riprende e fa proprio uno dei suoi tratti fondamentali, vale a dire la struttura spiccatamente matriarcale di una società dove la donna, la madre è la protagonista indiscussa.
Nel disegno di Almodóvar la donna, che sia popolana o diva, è fonte di vita e come tale è capace di generare una forza inesistente nell’universo maschile: non a caso gli uomini appaiono sempre in secondo piano, sono presenze fantasmiche come in Tutto su mia madre (1999), folli come in Légami! (1989) o pesi da eliminare come in Volver (2006).


L’universo femminile non si restringe soltanto ad un genere, ma a tutti coloro che si sentono donna.
Il mondo di Almodóvar si costella di queer, che con naturalità e senza pregiudizio, si accomunano e solidarizzano creando un adorabile melting pot sessuale che non può fare a pugni con la società che il regista ritrae, proprio perché matriarcale e fondamentalmente femminista. Anche quando descrive le lande più remote della Spagna, tradizionalmente legate ad una cultura cattolica, le donne non sono mai sfiorate dal pregiudizio nei confronti di figli, amici o conoscenti dalla sessualità non sempre definita. Almodóvar, infatti, non attacca la cultura cattolica popolare, fatta delle sue tradizioni e delle sue superstizioni, che anzi con la sua iconografia contribuisce a vivacizzare gli scenari, ma prendendo spunto dal Buñuel, aggredisce il mondo clericale, bigotto e spesso unico vero luogo di perversione: con La mala educación (2004) si avvicina al tema scottante della pedofilia, creando una pellicola di forte impatto emotivo che regala allo spettatore una lucida visione sulle conseguenze di un’infanzia negata proprio da chi si fa mentore di proteggerla.
Emblema della poetica del regista spagnolo rimane però Tutto su mia madre: nonosatnte sembri scontato citarla, essa sviluppa tutte le tematiche abbozzate nelle pellicole precedenti ed anticipa quelle dei film successivi. La forza della donna è presentata nel contesto della perdita e della fine, le sue protagoniste sono al tramonto della carriera come Huma o della vita come Maria, ma non rinnegano la possibilità che dalla perdita rinasca nuova vita. La vita è come un palcoscenico (altro tema carissimo ad Almodóvar è quello dello spettacolo) dove dopo la caduta è necessario rialzarsi, e grazie alla coesione che esse dimostrano possono procedere nell’esistenza: la morte, la malattia, la droga ne fanno parte e come tali non vanno subite ma combattute.



Il regista mostra una forza d’animo invidiabile delle donne che ritrae, poiché esse sono coscienti –come sottolinea Agrado – che l’autenticità costa molto. E quest’autenticità che le donne cercano, se letta in senso più ampio, è la volontà di essere libere dagli schemi e dai pregiudizi di una società che da sempre le ha subordinate agli uomini, rivendicandosi grazie alla loro capacità congenita di lottare.
Nella sua opera Almodóvar non ha solo dimostrato di essere un eccellente regista, capace di trasmettere al pubblico emozioni di ogni natura, ma soprattutto ha saputo e sa essere il regista di tutte le donne, poco importa a conti fatti, se molte di queste sono nate in un corpo da uomo.

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The Help di Tate Taylor

Il tema del razzismo è ancora, e aggiungerei purtroppo, di grande attualità, e tuttora il pregiudizio verso le minoranze non è per nulla arginato. Non è scontato che un opera tratti una questione del genere senza cadere nella demagogia, ma The Help ci riesce magnificamente. La pellicola narra di un bellissimo esempio di alleanza e amicizia femminile, in un sud degli stati uniti ancora, nei primi anni sessanta, profondamente razzista.

Qui Skeeter, una bella ragazza bianca appena laureata, torna nella sua casa in Mississippi e scopre che la sua amata nanny, Costantine è scomparsa. Diversa dalle coetanee, Skeeter non sogna il matrimonio ma la libertà, disdegna il loro modo convenzionale di vivere la vita e non comprende il loro fanatismo razzista. Sono questi gli spunti che portano la ragazza a voler scrivere un libro molto particolare: una raccolta d’ interviste alle donne di servizio di colore che sono un perno fondamentale delle famiglie bianche, anche se queste non sembrano accorgersi della loro importanza. Queste donne si occupano della casa, crescono i bambini bianchi di quelle donne e quegli uomini che non le rispettano e pure li amano e li curano per poi scomparire dalle loro vite, sapendo che proprio quei bambini diventeranno i loro futuri aguzzini.
Aibileen sarà la prima donna nera a raccontare la propria esperienza a Skeeter, dando così l’impulso anche alle altre donne della sua comunità ad aprirsi a questa rossa sconosciuta. Aibileen è una donna fiera, dalle movenze regali e dallo spirito forte e mentre racconta le sue vicende a Skeeter, si sta occupando del suo diciassettesimo bebè. Il suo amore verso questa bambina è molto più puro e incondizionato di quello della madre, e la piccola sembra prescindere più da lei che dal proprio genitore. La scelta che fa Aibileen di raccontare la propria storia, è dovuta al fatto che la donna, dopo la morte del figlio, sente di non aver più nulla da perdere e, soprattutto vuol rivendicare il sogno del ragazzo, ovvero quello di vedere, un giorno, il suo paese libero dal razzismo.

Midnight in Paris di Woody Allen

Quando si fa dell’ arte e del cinema che deve essere prêt-à-porter, se non s' iscrive l'opera in un genere e se ne seguono gli stilemi, uno dei metodi più semplici per attirare il pubblico è un escamotage di sicuro impatto. In questi tempi, unanimemente considerati bui, quale espediente migliore se non la nostalgia?
Midnight in Paris è un film che avrebbe potuto “essere” ma non è stato: i molti sbocchi di discussione, l’ ambientazione parigina che da sola “fa” cinema, il ritorno romantico all’ arte intesa come vita, sono mozzati bruscamente e immersi in una nebbia, densa e insopportabile come l’ utilizzo massiccio che Allen fa della profondità di campo ridotta.
Lo spettatore quindi non ha tempo o spazio per riflettere sui molti interrogativi che accennano i protagonisti della storia, ma a rapirlo è la sfilata delle grandi figure della storia dell’ arte che Gil (Owen Wilson) incontra durante le sue passeggiate notturne per le strade della Ville Lumiére; d’ altra parte chi riesce a riflettere sul valore del proprio presente mentre sullo schermo madame Gertrude Stein accusa Picasso di essere un petit-bourgeois? Invero è proprio su questo che il film dovrebbe far riflettere lo spettatore, ovvero sulla quotidianità spicciola di ogni epoca, il cui valore è relativo sia all’ ambiente in cui si vive sia a come si vive.