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Blood for Dracula di Paul Morrissey


Dracula deve trovare sangue di vergine, pena la fine della sua stirpe. E quale posto migliore se non la cattolica Italia per trovare una ragazza illibata?
Dopo il barone Frankenstein, Paul Morrissey si cimenta con un altro classico personaggio della letteratura dell’orrore il Conte Dracula.
Per fare questo trasferisce parte delle maestranze della Factory in Italia, dove ha la possibilità di dirigere, tra gli altri, Vittorio De Sica, qui nella sua ultima interpretazione.
Tutto il film varrebbe soltanto per i monologhi del conte Di Fiori, che spera di maritare una delle quattro figlie con l’abbiente conte di Romania. “Dracula, the sound is so intriguing, three syllables Dra-cu-la, I think I like that name!” si ripete nel cercare di convincere la moglie.
Udo Kier riesce ad essere semplicemente fenomenale nella parte del conte dandy, quasi mai brutale, neppure nelle scene che lo richiederebbero. Ne esce una figura malinconia e malata, a tratti quasi ridicola ma mai scontata.
Questi elementi insieme alla scelta degli ambienti, contribuiscono a fare del film una favola decadente, dove gli attori non recitano ma scivolano nei minuti che passano, lasciandosi trasportare dal corso degli eventi. L’ azione sembra svolgersi da sola, o forse si svolge da sola, mentre la macchina da presa cerca di cogliere l’ istante poetico. In questo si sente molto l’ influenza degli anni passati al fianco di Warhol e degli esperimenti girati all’ interno della Factory; mostrare appare sempre più interessante che raccontare, lo dimostra tra le altre cose anche la sceneggiatura pressoché inesistente, e i dialoghi scritti sempre poco prima delle riprese. Può sembrare riduttivo parlare del cinema underground come tale soltanto per mancanza di sceneggiatura, ma è un fattore che contribuisce molto alla libertà di movimento, laddove la libertà è necessaria all’ opera.
Tuttavia in questo contesto che sembra così sospeso nel vuoto del tempo, si interseca per la prima volta in un film di Morrissey la componente politica; forse sarebbe meglio dire che si esplicita poiché sarebbe sciocco dire che i film underground, in quanto impregnati da un certo nonsense non abbiano nel momento della concezione e quindi già a priori una coscienza politica, un certo modo di vedere il mondo e di concepire l’ arte.
Morrissey quindi esplicita la coscienza politica nel personaggio di Mario Ballato, interpretato da Joe Dallesandro; sorvolando sulle capacità recitative di quest’ ultimo, che pur essendo nato nella factory sembra non averne neppure sentito l’ odore, è interessante vedere come Ballato esprime la sua lotta di classe contro i padroni. La falce e martello dipinte sul muro dietro al suo letto e la risposta ad Anton: I’ m not a servant, I’ m a worker riassumono il pensiero di una generazione, che sembrava non aver mai toccato i prodotti della Factory e più in generale la scena dell’ underground newyorkese.
Horror, grottesco, drammatico… questo film non appartiene a nessun genere o forse li mescola tutti.
Paul Morrissey non si è lasciato sopraffare dall’ opportunità di dirigere in Italia, di lavorare con attori come De Sica e Polanskyi, insomma non si è montato la testa. Ha tenuto presenti le sue origini e la lezione di Warhol, creando così un prodotto dall’inconfondibile sapore di quel cinema underground che riesce a rendere magistralmente tutto così finto e vero allo stesso tempo.