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Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg

Nel futuro prossimo le risorse scarseggeranno, gli oceani avranno sommerso gran parte delle città e sarà d’importanza vitale trovare un modo per diminuire i consumi. I robot fanno già parte da tempo della vita quotidiana, utile ed economico rimpiazzo per le più svariate attività. Un gruppo di scienziati sta mettendo a punto automi in grado di imitare gli esseri umani in tutto e per tutto, compreso il lato emozionale. Il tessuto sociale è quindi diviso in due parti: da un lato vi sono tali automi, detti mecha, e dall’altro gli umani.
Steven Spielberg riprende un progetto di Stanley Kubrick, morto prima che riuscisse a realizzarlo; per il regista americano Intelligenza Artificiale è il ritorno alla fantascienza, e sulle orme del compianto cineasta, Spielberg plasma un’opera che porta il suo segno distintivo, una felice via di mezzo tra realtà e fantasia.
Protagonista della pellicola è un mecha, bambino/robot adottato da una famiglia il cui unico figlio, Martin, è in coma. La decisione presa dal marito non convince Monica la quale fa fatica ad accettare un bambino che reputa fasullo, una sciocca imitazione del figlio; la donna pertanto decide di attivare al piccolo automa il lato emozionale: a questo punto David si accorge di essere una via di mezzo tra un robot e un bambino vero. Quando Martin si risveglia,però, iniziano a sorgere vari e prevedibili problemi, perché il ragazzino non accetta il fratello e fa di tutto per metterlo in cattiva luce di fronte ai genitori. Trovandosi di fronte ad una situazione insostenibile Monica si vede costretta ad abbandonare il figlio automa insieme a Teddy, orsetto robot. Solo in un bosco, David ricorda la storia di Pinocchio che la madre gli raccontava prima di dormire e, insieme a Teddy, parte alla ricerca della fata turchina.
Tutta la pellicola gioca nel parallelo con la favola del burattino di legno: vi ritroviamo le figure della fata turchina, il grillo parlante in forma di Teddy e Lucignolo nella figura di Joe. Tuttavia tra il significato della fiaba e quello del film le discrepanze sono evidenti. A differenza di Spielberg, lo scrittore toscano non descriveva il burattino con la stessa pietà con cui il regista descrive David, come un essere perfetto in contrasto con il mondo: Pinocchio non era accettato dalla società, ma anche lui, come quest’ultima non mancava di difetti. Nel romanzo, Collodi vuole e riesce a rappresentare una crescita parallela, ossia quella del burattino discolo che modificando il proprio carattere diventa un bambino buono e quella della società che, mano a mano, impara ad accettare il nuovo. David, invece, è presentato da subito come un bambino essenzialmente buono, privo di difetti, che la società degli “organi” (così sono chiamati gli umani dai robot) non vuole accettare.
In questo senso, la visione di Spielberg dimostra un evidente e atavico difetto del cinema americano, e una delle questioni morali che mai è riuscito a superare, relativa al manicheismo con cui esso spesso tratta il tema delle differenze sociali. La storia di David, e il modo in cui essa rappresenta il tema del rapporto tra diversi, è esemplare di quell’ incapacità a descrivere le differenze senza estremizzarle se non in rari casi –come può essere il cinema di Cassavetes – su cui Truffaut invitava a riflettere. Se riguardiamo, in una prospettiva storica, il modo in cui il cinema americano ha trattato questo argomento allora salta subito agli occhi l’esemplarità del tema del razzismo verso gli afroamericani. In un primo periodo, infatti, il cinema americano ha definito i “neri” come i cattivi per eccellenza (famoso il caso di Griffith) per poi, in epoca moderna, capovolgere totalmente questa visione sostenendo la bontà degli afroamericani in contrapposizione all’insensibilità bianca. Nell’opera di Spielberg si presenta il medesimo difetto, sostituendo il dittico neri/ bianchi con quello umani/robot.
Nella seconda parte del film, l’universo del visibile si amplia a tutto il mondo dei mecha e, sempre per seguire la fiaba di collodi, David/Pinocchio sta per entrare in un moderno Paese dei Balocchi. Attraverso l’incontro con Joe, programmato per essere un gigolò, il piccolo scopre un mondo umano, grottesco quanto pericoloso, che gli era stato, fino a quel momento, totalmente estraneo. Nelle notti di luna piena esiste una pattuglia che si aggira nei boschi al fine di catturare quanti più mecha abbandonati sia possibile. In nome dei “figli di Dio” gli automi vengono portati in una sorta di circo, dove sono derisi e infine uccisi da una folla festante. David è rinchiuso in una gabbia e portato al centro dell’arena per l’esecuzione, ma, proprio come nella fiaba, all’ultimo momento viene salvato poiché né totalmente bambino né totalmente robot. Qui nasce quella fuga ai confini del mondo, in cui Joe e David intrecciano profondamente la loro amicizia, che però terminerà nello scenario di una New York apocalittica perchè Joe, sebbene avesse tentato di lasciare il suo mondo festante, alla fine, proprio come Lucignolo, ne rimane per sempre schiavo.
Inizia quindi il terzo episodio della pellicola; la storia fa un salto temporale e David, essendo l’unico essere a metà tra umano e automa, si risveglia dopo duemila anni. Intorno a lui tutto è cambiato il mondo è governato per intero da robot e, tra questi, riesce finalmente a coronare il sogno d’incontrare la fata turchina. Il bambino riesce così a esaudire il suo desiderio più grande, tornare dalla madre per sentirsi dire una prima ed unica volta il tanto agognato “ti voglio bene”.
Quella tessuta da Spielberg è un’opera che vuole evidenziare il problema dell’accettazione della diversità; il regista utilizza l’impianto formale della favola al fine di creare un film per ogni fascia di pubblico. A livello stilistico il regista armonizza perfettamente il dualismo effetti speciali/ritratto dal vero: il ricorso a una scenografia da fantasy non offusca, infatti, il fondo di realismo che permea la pellicola. Come di consueto avviene nella produzione di Spielberg, il ricorso agli effetti speciali è un mezzo per costruire realisticamente il mondo dell’immaginario.
Spostando l’attenzione all’aspetto narrativo, si nota come la sceneggiatura non sia invece priva di evidenti lacune: pur sostenendo un buon ritmo, la pellicola non riesce ad arrivare al cuore della questione, vale a dire a dare una risposta al problema della mancanza d’integrazione tra mondi differenti. Purtroppo il film non ci arriva poiché manca una visione esaustiva di tutti i punti di vista dei personaggi, non solo quello del protagonista dunque, ma anche quelli dei due mondi che vi sono descritti: quello dei mecha e quello degli umani.
Esemplare, a questo proposito, la questione psicologica, completamente sorvolata, del rapporto tra individui; prendiamo l’esempio del piccolo Martin: il bambino, una volta risvegliatosi dal coma, si trova in casa David. Per Martin, David rappresenta l’intruso a prescindere, indipendentemente dal fatto che appartenga al mondo degli umani o dei mecha. D’altra parte anche David, che della storia è il personaggio buono, è delineato in modo forse troppo semplicistico; ad esempio perché se David ha un lato emotivo sviluppato, non comprende le difficoltà che può avere Martin nell’accettarlo?
Forse è proprio l’approccio individualistico alla storia che vede centralmente solo la figura del piccolo automa, a non permettere una visione circolare della situazione; in tal mondo la questione sembra vertere solo sull’accettazione forzata dell’altro senza mai esplorare la terra, probabilmente più ostica, dell’integrazione tra parti.
Nonostante fosse di complessa realizzazione, probabilmente Spielberg avrebbe dovuto almeno tentare tale strada. Intelligenza Artificiale è una pellicola datata 2001, appartenente quindi ad un’epoca, dove la disquisizione dell’ incontro tra mondi differenti è fatto quotidiano, da non liquidare semplicisticamente con il racconto di una vicenda personale. Così strutturato, il film lascia intendere che l’utopia di un’uguaglianza forzata e ricercata continuamente altro non porta che ad un riscatto di tipo individualistico e non, come si dovrebbe, collettivo (come dimostra il finale dove l’unico a beneficiare di siffatta situazione è David).
In tal modo Spielberg dimostra di guardare all’argomento come a una questione irrisolvibile, se non nell’immaginario personale; la pellicola lascia pertanto nello spettatore un senso d’impotenza. Davanti ad una questione già grande di per sé, si ha un ulteriore prova che il sogno di un’uguaglianza forzata è insensato, almeno fino a quando gli esseri umani capiranno che il bisogno principale non è l’omologazione ma la possibilità d’interagire tra diversi mondi mantenendo le proprie peculiarità come doni capaci di arricchire la mente e lo spirito dell’uomo.