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Les Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy



Si muore d’amore solo al cinema

Una cittadina piovosa mai baciata dal sole, due amanti ed una guerra pronta a dividerli: ci sono tutte le condizioni per qualificare la pellicola come un classico melò, se Jacques Demy, pur ricalcandone gli stilemi, non ne confutasse il senso in modo da dar vita ad una pellicola del tutto personale sia nelle tematiche che nello stile; suo esordio nella commedia musicale, Les Parapluies de Cherbourg segnerà la tradizione del musical europeo e in particolar modo di quello francese.
In una Cherbourg avvolta dalla nebbia ma colorata da tenui tinte pastello spiccano due amanti: Guy (Nino Castelnuovo) e Geneviève (Catherine Deneuve); i due giovani si amano alla follia tanto da volersi unire in matrimonio il prima possibile, anche contro il volere della madre di lei, ma Guy sarà costretto a partire per la Guerra d’Algeria e Geneviève scopertasi in stato interessante cederà alle lusinghe del ricco Roland.
La prima commedia musicale di Demy è un compendio di amore sventurato e musica: la pellicola copre un arco temporale di sei anni (1957-1962) ed è divisa, come in atti, in tre parti nelle quali si dispiega l’azione: “Le départ”, “l’absence”, “le retour”. Interamente cantato in ogni sua parte (non soltanto nei momenti salienti come di consueto accade per i musical) ma privo della parte coreografica Les Parapluies de Cherbourg non deve ingannare per la sua apparente aurea romantica: l’amore descritto da Demy affrontato senza il lirismo consueto e si sviluppa secondo le logiche dell’esistenza reale.

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Cul-de-sac di Roman Polanski


George e Teresa si sono ritirati a vivere in un castello che, tranne per una striscia di terra attraverso cui è collegato alla terraferma, è lambito da ogni lato dal mare. Ogni notte quest’unica strada viene sommersa dall’alta marea, rendendo la dimora, teoricamente, un eremo inaccessibile. Immagine fisica per cul-de-sac, espressione che dà il titolo alla pellicola e indica uno stato mentale dal quale non si è in grado di uscire.
Roman Polanski, abilissimo tessitore d’immagini, avvezzo a trasformare in visione l’essere dei suoi protagonisti, traccia in questa commedia nera dal gusto estremamente grottesco, lo stato di una borghesia sull’orlo del tracollo, bramosa ma incapace di superare i propri limiti interiori. I due sposi novelli che, infatti, hanno deciso di abbandonare il conformismo del quotidiano al fine di dedicarsi a un’esistenza, per così dire bohèmienne, dimostrano fin dalle prime battute l’incapacità di dare forma al loro desiderio.
Inettitudine che potrebbe essere letta sotto due luci differenti: la prima quella della necessità dell’uomo moderno di vivere in una società regolata da ritmi che non sono solo quelli dell’istinto; la seconda, e quella su cui Polanski costruisce il senso del film, è l’impossibilità di vivere liberi quando a costringere l’individuo in una gabbia è sempre e indirettamente il ceto sociale di appartenenza. In tale condizione l’individuo non è realmente conscio della propria situazione e convinto fermamente di essere libero finisce per muoversi come un burattino nelle mani di un destino scelto solo in apparenza.

La Carriera di Suzanne di Erich Rohmer

Bertrand è un giovane studente di medicina, un giorno, insieme all’amico Guillame incontra Suzanne; la ragazza lavoratrice di giorno e studentessa di sera, si dimostra subito aperta alla nuova amicizia e Guillame, più spigliato rispetto al compagno, la seduce subito. Una sera, però, Guillame inizia a sedurre Sophie, tra lo sguardo cupo di Suzanne e l’imbarazzo di Bertrand.
Bertrand disapprova ogni giorno di più il comportamento di Suzanne, per lui la ragazza non ha amor proprio e si dimostra troppo disponibile nei confronti di Guillame, che presto la scarica, e del resto dell’universo maschile. Pur continuando a disprezzarla Bertrand si ritrova sempre più spesso in sua compagnia e non esita ad approfittarne, anche economicamente; lui è tuttavia attratto da un’altra ragazza, Sophie. Tanto Suzanne è spigliata ed aperta, tanto Sophie è chiusa ed inarrivabile e, per Bertrand rappresenta una sorta di donna moralmente perfetta.
Datato 1963 e secondo dei Sei Racconti Morali, questo mendiometraggio di Rohmer sottolinea in appena 52 minuti la capacità del regista di raccontare storie servendosi dell’ambientazione per delineare la psicologia dei personaggi.
La maggior parte delle scene avviene in interni: dai café parigini, alle stanze in affitto fino ai night-club; questi ambienti vogliono rispecchiare in primo luogo la psicologia di Bertrand: come essi sono cupi e privi di luce così la mente del giovane non è illuminata dal sole della libertà e vive solo di rigidi stilemi morali. L’indignazione nei confronti di una ragazza spigliata, forse dai costumi un po’ libertini, qual’ è Suzanne conferma la chiusura mentale di Bertrand; egli non sopporta i suoi comportamenti, sembra pudico ma, allo stesso tempo, non disdegna la sua compagnia, le cene e le serate da lei pagate e gli appuntamenti a tre con Guillame. Bertrand continua per tutto il film a giudicare la ragazza come fosse esterno alla vicenda, confermando così un comportamento assolutamente borghese.

Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda

Cléo è una cantante, giovane bella e di successo. Conduce una vita mondana, possiede una grande casa al centro di Parigi ed ha un’amante; tutto sembra scorrere per il verso giusto, se non fosse che la donna aspetta il responso di un’analisi medica, risposta che non si annuncia come rosea.
Esordio di Agnès Varda nel lungometraggio, la pellicola altro non poteva essere che una storia di donna vista con gli occhi di un’altra donna; quello che a prima vista può apparire un soggetto semplice e, forse, più adatto ad un cinema da mélo, diventa nelle mani della regista –che non va mai dimenticato, giunge al cinema dopo una carriera come fotografa- un’indagine introspettiva che si compie attraverso il visibile.

La pellicola si apre con una cartomante che sta leggendo i tarocchi a Cléo; la donna ha capito quale sarà il futuro della giovane ma è ferma nella decisione di non riferirle assolutamente niente. La fotografia si trasforma repentinamente dal colore al bianco e nero e da questo momento in poi lo spettatore assisterà alla metamorfosi di Cléo.
La prima reazione della giovane è quella di comportarsi come se nulla stesse accadendo, rifugiandosi in un’irrealtà che da sempre caratterizza la sua esistenza: gira per negozi provando cappellini e ritorna in una casa che anch’ essa rappresenta una nicchia irreale, la camera piena di veli e pizzi, l’altalena e i gattini con cui giocare; come appartenenti ad un mondo che nulla ha da spartire con la quotidianità è la visita dell’amante e degli amici che altro non fanno che confermare una situazione dove Cléo non può leggere dentro sé stessa.
Per affrontare il problema Cléo deve tornare Florence, togliere la parrucca bionda e accettarsi come donna vera. Esce di casa ed inizia a passeggiare per Montparnasse; immediatamente il quartiere le appare diverso, le persone non le chiedono l’autografo entra in un bar affollato dove un disco suona la sua canzone che, però, non provoca effetti nella gente. Il mondo le appare finalmente per quello che è, fatto di bene e di male, ma comunque sia di cose tangibili. Come l’incontro con l’amica modella, che non si vergogna di apparire nuda davanti agli artisti che la ritraggono, la quale le fa comprendere come non ci sia vergogna nel mostrare se stessi, di quanto sia meglio apparire nudi per ciò che siamo che nascondersi dietro una parrucca.
E’ il primo giorno d’estate è Florence è in un parco, un parco non lontano da casa sua ma che non aveva mai visto, la vediamo riprendere il contatto con un’altra parte della realtà: la natura. Mentre passeggia il destino mette sulla sua strada un uomo, che, come lei, non ha più tempo. E’ Antoine, in licenza dalla Guerra d’Algeria, per la quale ripartirà tra poco tempo; anche lui come Florence sa che domani non potrebbe più essere qua, in questa realtà che Cléo rifuggiva e che, adesso, Florence accetta.
Prerogativa della pellicola è quella d’immergersi pienamente nella veridicità del reale; come preannuncia il titolo –Cléo dalle 5 alle 7- la Varda fa coincidere il tempo vissuto da Cléo prima del responso del medico (in realtà un’ora e mezzo e non due ore come da titolo, poiché la diagnosi è anticipata grazie all’incontro con Antoine che le fa comprendere come non si debba aspettare quando si rischia di non avere più tempo) con quello che lo spettatore impiega a vedere il film.
La storia è mescolata al reale facendo sì che il percorso di Cléo verso il raggiungimento dell’autocoscienza non avvenga in una riflessione solitaria ma attraverso un continuo confronto con il mondo; la macchina da presa si muove nelle strade in soggettiva e in tempo reale, portando così allo stremo lo stilema proprio della Nouvelle Vague di voler captare la veridicità del momento attraverso la ripresa en plein air.
Cléo de 5 à 7 è un film molto interessante che indaga nell’animo di una donna in connessione con gli agenti esterni e un visibile sempre mutabile; servendosi del cinema come mezzo dualistico che allo stesso tempo è essere occhio sul reale (come lo è una foto) e sull’irreale (grazie alla possibilità di mettere insieme una storia non vera come invece lo fosse), e, insieme, rappresenta un’interessante riflessione sul senso del tempo, di come quello cinematografico possa coincidere, volendo, con quello reale.

Smultronstället di Ingmar Bergman

Il viaggio con duplice valore di spostamento fisico e d’ introspezione è ripreso da Bergman per narrare la storia di Viktor, medico e professore di fama, che, all’ età di settantotto anni si accorge di aver vissuto un’ intera vita vuota di affetti.
Strutturato come un lunga prolessi dove l’ io narrante è lo stesso professore, Bergman utilizza una composizione in due piani: da una parte la componente reale e dall’ altra quella onirica ovviamente modellata sul piano del tangibile. Fin dal primo sogno l’ elemento portante che si percepisce è il sentimento di angoscia: Lo spaesamento e la solitudine di Viktor si manifestano fin dal sogno iniziale dove il vecchio professore si ritrova in una strada del suo paese, ma sconosciuta, che fa pensare ad uno smarrimento di memoria dantesca; il tempo sembra non esistere, le lancette degli orologi strappate e gli uomini senza volto: tutta la pellicola potrebbe essere considerata una lunga autoanalisi dato che, freudianamente, il sogno spiega lo stato reale dell’ uomo.
Per riproporre i sentimenti più intimi dei protagonisti il piano espressivo si colma di primi e di primissimi piani dove gli attori ripropongono, seppur sulla scena cinematografica, uno stile marcatamente teatrale fatto di lunghi e potenti sguardi nella macchina da presa.
Afflitto dal sogno appena fatto Viktor decide di recarsi a Lund, dove verrà celebrato il suo giubileo professionale, in auto anziché in aereo. Ha inizio così anche il viaggio “fisico” che gli permetterà incontri che rappresenteranno punti emblematici della sua vita passata e che poi nei momenti di assopimento svilupperà in sogno comprendendo, soprattutto grazie all’ aiuto di Marianne, il senso della sua vita.
Questo novello Virgilio è il personaggio di maggior vigore: se gli uomini, come Viktor ed il figlio Evald, si dimostrano egoisti e gelidi, retti in piedi soltanto dalle convenzioni sociali, la donna, Marianne come la giovane Sara o la vecchia madre di Viktor, è l’ asse portantiedella famiglia e della vita. Sarà di Marianne il compito di sbattere letteralmente in faccia la realtà al suocero; la donna si allontana così dall’ archetipo femminile tenero e sognante e veste i panni dell’ uomo, del personaggio radicato nella realtà e attaccato alla vita vera fatta di sentimenti forti e di sfide, non a caso per tutto il viaggio Ingrid Thulin fumerà, guiderà ed indosserà abiti da uomo.
L’ altro personaggio chiave incontrato durante il viaggio è Sara, una giovane peperina che ricorderà al professore il suo vecchio e omonimo amore (le due donne sono interpretate entrambe dalla bellissima Bibi Andersson). La ragazza in viaggio per l’ Italia con due amici, uno razionale e l’ altro sognante, farà riemergere alla memoria del professore i ricordi di gioventù.
Attraverso il secondo sogno Viktor si accorge di come, “al posto delle fragole” - così era chiamato un piccolo prato ricolmo di fragoline vicino alla casa delle vacanze- si sia lasciato sfuggire l’ altra Sara, amore della sua vita, sposatasi poi con il fratello. L’ uomo non si era mai accorto di quanto, seppur stimato dalla gente negli affetti fosse privo di linfa; allo stesso modo non si era avveduto di come i ripetitivi tradimenti della moglie fossero volti a far emergere in lui una qualche reazione che non fosse comprensione.
Avulsi dalla realtà quindi, gli uomini di Bergman non intendono far parte della vita se non in quella iscritta della routine che sorregge e non da scosse, è Marianne che farà capire tutto ciò al suocero, indicando nell’ esempio del marito che per un misto di egoismo, paura e disgiunzione dalla vita arriva perfino a non desiderare il bambino che sua moglie porta in grembo.
L’ epifania di Viktor è proprio in quest’ immagine di vita materiale che è la maternità, la nascita, il comporsi di un essere in un altro essere che si trasfigura nella rinascita di Viktor la quale si manifesta finalmente nell’ epilogo e nel tramonto dell’ esistenza: come il riappropriarsi degli affetti e il gustarsi i sentimenti della vita; dalle manifestazioni di tenerezza verso la signora Alman al ricomporsi del rapporto tra il figlio e la nuora è la rivincita del fuoco sul ghiaccio e la riappacificazione con il passato attraverso l’ amorevole figura della doppia Sara che ricongiunge la vita affettiva di Viktor laddove si era spezzata.