Visualizzazione post con etichetta Jean-Luc Godard. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Jean-Luc Godard. Mostra tutti i post

Il Disprezzo di Jean-Luc Godard


Nelle mani di Godard la trasposizione cinematografica del libro di Moravia si trasforma in un lavoro del tutto personale ed il cineasta, come di consueto, si rifà ad una fonte letteraria solo pretestualmente cosicché dell’ opera si riprendono solo le linee guida. L’avvenente moglie francese di uno sceneggiatore italiano inizia a disprezzare il marito dopo che questi cede ai compromessi con un produttore americano che l’ha scritturato per lavorare a un film sull’Odissea diretto da un regista tedesco, Fritz Lang.I ruoli del produttore, del regista e dello sceneggiatore sono mescolati e differiscono da quelli che Moravia gli aveva dato in principio: Godard, infatti, sconvolge la dicotomia classicità/modernità, propendendo per la prima. La figura di Emilia, Camille nel film, è disegnata in una veste del tutto diversa rispetto a quella originaria. La misoginia di Godard si accentua e, non a caso, l’ autore sceglie Brigitte Bardot, icona della voluttà e leggerezza femminile, proprio come a voler sottolineare la sua concezione della donna: se l’ uomo nei suoi film è la figura romantica e sognatrice, la donna rappresenta la controparte frivola. E’ vero anche che mentre nel libro si comprendono le motivazioni che spingono Emilia a disprezzare il marito, nella pellicola non si riesce a percepire la medesima sensazione. In secondo luogo con la Bardot, Godard vuole rappresentare il cinema commerciale: siamo in un momento di stasi della Nouvelle Vague e, infatti, nella pellicola a essere in primo piano non è la lavorazione del film l’odissea, ma i rapporti interpersonali, le liti tra regista, produttore e sceneggiatore, insomma il cinema, così come i giovani turchi lo avevano sognato, sta morendo. Godard con il disprezzo ha inteso fare un film sulla crisi del cinema, ed ha scelto l’Italia e Brigitte Bardot per dimostrarla: con la prima volendo rappresentare il luogo ideale della corruzione e con la seconda il perno del cinema commerciale che come suggerisce il finale, morirà.
originariamente pubblicato su IL MACHETE

Henri Langlois e Les Evénements de la Chinémathèque

Il 6 febbraio del 1968 il consiglio di amministrazione della Cinémathèque Française, su pressione del Governo Francese ed in particolare dietro spinta diretta del Ministro della Cultura André Malraux, sollevò Henri Langlois dal posto di direttore dell’istituzione parigina, rimpiazzandolo con un candidato di comodo scelto dal governo, tale Pierre Barbin; la decisione del Ministro trovò giustificazione nel dover rimediare all’amministrazione di Langlois, condotta in modo evidentemente lacunoso.
La scelta di destituire l’antico fondatore della Cinémathèque dal suo incarico risuonò nell’ambiente come una costrizione immotivata, Henri Langlois era già all’epoca una figura di riferimento per cineasti, critici e attori di tutto il mondo: con la sua persona simboleggiava la forza dell’amore incontrastato per la pellicola. A molti apparve più che una scelta mirata a migliorare, un sopruso, tanto più che il nuovo direttore si mise in fretta a cambiare addirittura le serrature dell’edificio al punto che Marie Epstein, una delle segretarie di Langlois -anch’ esse licenziate senza preavviso, come il resto del suo entourage- vi rimase addirittura chiusa dentro.
Le proteste non tardarono ad iniziare, appena dilagata la notizia venne creato il Comité de Défense de la Cinémathèque, con sede nella redazione dei Cahiers du Cinéma al quale molti cineasti della Nouvelle Vague, ed in particolare François Truffaut (nel periodo occupato anche alle riprese di Baisers Volés) vi presero parte attivamente. Da mattina a sera si raccoglievano firme e si chiedeva ai registi di bloccare le proiezioni dei loro film che dovevano avvenire alla cinémathèque; in tal modo in poco tempo le sale sarebbero rimaste a corto di pellicole, l’istituzione non avrebbe più avuto ragione di esistere e il nuovo direttore -e in particolar modo il Ministro Malraux- sarebbe stato costretto a rivedere le proprie scelte.
Una prima manifestazione, del tutto pacifica, si svolse subito pochi giorni dopo; vi parteciparono quelle che all’epoca erano le figure di spicco dell’ambiente cinematografico: Jean-Luc Godard, François Truffaut, Alain Resnais, Jacques Rivette, Jean-Pierre Léaud, Jean Eustache, Michel Piccoli solo per citare alcuni nomi. Accanto a queste nuove generazioni, più attive e politicizzate, si affiancò la vecchia guardia dei Michel Carnè e dei Nicholas Ray, al tempo il cineasta americano più amato in Francia. Presto si ebbe solidarietà anche da personalità più influenti, telegrammi di sostegno arrivarono dagli Stati Uniti da registi del calibro di Charlie Chaplin, Fritz Lang e Dreyer.
Una settimana più tardi si svolse una nuova manifestazione, gli animi si fecero più accesi e vi furono svariati scontri con la polizia che attaccò la folla, la quale sentendosi aggredita iniziò a lanciare sassi al Palais de Chaillot (sede della Cinémathèque) si ruppero i vetri e si aprirono le finestre per entrare nell’edificio: ciò provocò un nuovo intervento della polizia ed alcuni arresti.
Un mese più tardi vi fu l’ultima manifestazione, l’unica delle quali vide la partecipazione attiva di Daniel Cohen Bendit; il futuro leader del Maggio Francese tenette desti gli animi asserendo che il “caso Langlois” poteva esulare dall’ambiente strettamente cinematografico per rifarsi ad un discorso più ampio sull’abuso di potere e di come questo può essere combattuto da una coalizione popolare; è vero, infatti, che gli avvenimenti che si tennero dal 6 febbraio al 23 aprile 1968, videro la partecipazione attiva di una classe di lavoratori, tali erano non solo le personalità più evidenti come cineasti, attori e critici, ma tutti coloro che lavoravano nell’ambiente cinematografico; queste persone riuscirono difatti a destabilizzare, (dal basso) un potere “alto” come quello del Governo francese; tanto che, spesso, si sottolinea che gli scontri avvenuti in questo periodo furono insieme l’inizio e una delle cause del Maggio.
Dopo due mesi e mezzo di contestazioni alla Cinémathèque venne convocata un’assemblea generale che rimise in carica Henri Langlois, era il 23 aprile del 1968 e il “popolo” del cinema francese aveva vinto la sua battaglia. L’evento tanto atteso fu festeggiato a dovere con la proiezione di una copia svizzera, ancora inedita, de “Il Circo” di Charlie Chaplin.

2 ou 3 choses que je sais d’elle di Jean-Luc Godard


"Parto tranquillo sulla strada del sogno e dimentico il resto (…) Ho dimenticato tutto salvo che, poiché mi riducono a zero è da lì che bisognerà ripartire”.

Un piano, una tazza di caffè dove la schiuma si muove formando un piccolo vortice, una delle immagini più famose di 2 ou 3 choses que je sais d’elle. Come il vortice creato dalla società dei consumi, ambiente in cui viviamo e dal quale anche nostro malgrado siamo risucchiati. Ma questo gorgo potrebbe avere anche una valenza positiva, rappresentare un pensiero mutevole pronto a dubitare della realtà che lo avvolge.
Ispirato da un’inchiesta de Le Nouvel Observateur, “2 ou 3 choses que je sais d’elle” è il più scarno e acre tra i film del primo periodo. Gli ideali romantici di rivoluzione muoiono già con il volto dipinto d’azzurro di Pierrot. Il cinema di Godard si scompone: a diventare protagonista è l’immagine della quale si inizia a sperimentare profondamente il limite e la possibilità. La struttura già frammentata si svincola del tutto dalla narrazione canonica e l’interesse volge alla descrizione della società e ai rapporti che intercorrono tra oggetti e persone, evitando l’indagine rigorosa e procedendo per associazioni spontanee poiché come dirà Juliette: nessun evento è vissuto per se stesso, si scopre sempre che è legato a ciò che lo circonda. L’intenzione del film è proprio di creare uno sguardo sull’insieme mediante una struttura circolare dove vicende, oggetti e persone si uniscono in ordine di consequenzialità, oltre a rappresentare con questa forma la prigione che crea la società dei consumi dove l’uomo si racchiude consapevolmente come padrone fino a diventare inconsapevolmente schiavo del sistema che esso stesso contribuisce incessantemente a creare.
Elle è l’attrice e la donna, è Marina Vlady e Juliette Jeanson insieme soggetto ed oggetto della vita e del film. Ma elle è sopratutto la regione parigina di metà anni sessanta: passivamente pronta ad accogliere il cambiamento in forma di cubi di cemento. Il riassetto urbanistico di Parigi entra nel film da protagonista, palcoscenico vivente degli eventi. A muovere i fili “il je” di Godard, in forma di voce fuori campo spesso sussurrata e nascosta riflette sulla vita moderna e sulla crisi dell’ esistenza nella nuova società.
Il paragone con Vivre Sa Vie è spontaneo, naturale grazie all’ auto-citazione che vede riaffiorare il volto di Nanà come dipinto, allo stesso modo logico trattandosi di un film da cineasta. Entrambe prostitute, Nanà era però la donna destinata a vivre sa vie consapevole delle sue scelte e del suo destino, appagata nella sua libertà di decisione la vedevamo filosofeggiare immersa nella splendida luce di Coutard. Juliette è invece lucida, calcolatrice. E’ moglie e madre del tutto inglobata nel meccanismo. Non vede nella prostituzione il disegno di vita ma un mezzo per raggiungere uno scopo: comprare il superfluo che nella nuova società è divenuto indispensabile. La prostituzione in Godard (come peraltro più volte spiegato dal cineasta stesso), non è soltanto il mestiere in sé bensì una metafora molto più ampia dei rapporti che si vengono a creare tra l’ uomo e la società. La vendita del corpo equivale all’abnegazione che tutti compiono prima o poi per trovare un posto nella società. E’ quindi necessario uscire da questo loop.
Il riemergere dal meccanismo può avvenire soltanto dimenticando: se in molti film di Godard risuonano insistentemente le parole “vita” e “scelta” in 2 ou 3 choses que je sais d’elle la parola che risuona più spesse è “dimentico”.
Quello che è un cinema teso tra teatralità e veridicità di gusto neorealista nasconde spesso dietro il farsesco una complessità di spirito e una profondità notevole. I personaggi godardiani assorbono e si nutrono del periodo in cui vivono anche quando il film (e una lettura superficiale) li presenta come completamente avulsi dall’ ordine sociale. I protagonisti di 2 ou 3 choses que je sais d’elle, proprio per questa ragione ci appaiono del tutto ordinari. La loro alienazione nasce dalla percezione della società parigina dell’ epoca, la loro è quindi una maschera naturale fattagli indossare dal sistema. Soltanto quando riescono a liberarsi da questo limite in cui sono finiti possono riprendere coscienza del loro essere. E’ nel momento in cui i personaggi escono dalla vicenda che inizia la riflessione: l’azione si blocca e in ambienti molto spesso (e non a caso) riempiti di specchi gli attori, sguardo in macchina, smettono di prostituirsi e riprendono coscienza del loro essere.
Come i personaggi escono dal film per poter pensare così è necessario secondo Godard uscire dalla realtà in cui si vive per poter costruirne una nuova. Il mondo quantomeno irreale che nasce da questa scissione non si trasforma assolutamente in un luogo fittizio, ma nell’unica possibilità che ha l’uomo di liberarsi dal sistema.

pubblicato anche su CONTROREAZIONI

Cinema/Cinéma


"…perché fare del cinema? Lo trovo disonorevole. Disonorevole e antiquato. E’ vero! Cos’è il cinema? Un faccione che fa delle smorfie in una saletta. Bisogna essere imbecilli per trovarlo bello! Ma sì! So quel che dico! Il cinema è un’arte illusoria. Il romanzo, la pittura…d’accordo. Ma non il cinema!"



da charlotte et son jules

Pierrot le Fou di Jean-Luc Godard


Au clair de la lune, mon ami Pierrot
Prête-moi ta plume, pour écrire un mot.


Il rosso e l’azzurro. Uno il colore della passione, l’altro quello della libertà. Passione e libertà. Sono forse questi, in fondo, i due presupposti che hanno sempre animato il cinema di Godard, e Godard stesso? Due colori comuni, ma capaci di nascondere dietro la loro banalità un significante enorme. Allora Pierrot è anche questo: la banalità che s’ impregna di significato. Stupido e superbo insieme. Stupido e superbo solo come chi nella vita ogni giorno grida: “Io so di non sapere”. E serve coraggio, soprattutto se si crede davvero. Ma in fondo cosa sono la passione e la libertà? Sono le doti che sconfiggono gli schemi prestabiliti? Hanno ancora valore nel cinema, o ne hanno mai avuto? La creazione porta in grembo la sfida, è la madre che distrugge i dettami imposti. Il cavaliere che combatte contro i mulini a vento che ha nel cuore la malinconia dell’artista. Pierrot, la maschera triste, il mimo che contempla la luna pallida come il suo viso diviene l’antieroe romantico che si tinge il volto di libertà.
Il cinema è emozione. Lo diceva già Renoir, parlando d’arte. E il cinema è arte, un’arte cosciente e non effimera. Per nulla inutile. Può anche servire a dirci chi siamo; un determinato cinema. Quello che non ci dice chi siamo non è cinema, è un mero prodotto culturale. Il cinema non è cultura.
Il cinema è l’immagine. Le forme che si combinano assieme e restituiscono vita alla vita. E’ il fascino dell’inquadratura che n’è l’identità stessa. Il quadro è il nostro “occhio”, l’unica possibilità che abbiamo per vedere quel mondo, ha la colpa di essere il nostro grande limite ma il merito di essere anche la nostra unica e infinita opportunità. Se ne fa un uso personale, è solo una questione di scelta e sta a noi decidere da che parte stare, se scegliere di entrare o rimanerne fuori. Il cinema in fondo non esiste è come il tempo. E questo è il suo mistero. Forse allora è proprio vero che il cinema è emozione, forse chi per la prima volta aveva visto le immagini in movimento si era emozionato proprio per aver visto l’invisibile, aver guardato in faccia il tempo, per la prima volta. Il cinema riesce a carpire l’istante, quell’attimo che non tornerà mai più, lo prende e lo immortala per sempre. Lo fa vivere nel momento stesso in cui altrimenti sarebbe morto. Belmondo e Anna Karina emergono dalla sabbia. E’ l’immagine della nascita e della morte, dell’inizio e della fine, l’emblema stesso dell’esistenza in un solo piano. La morte e la vita si ritrovano lì, su quella riva e s’ intrecciano. E’ il tutto, è la linfa dell’essere. E’ il cinema.

Bande à Part di Jean-Luc Godard



Quando parti dall’idea che un film ti piace c’ è poco da fare, lo spirito critico va a farsi benedire e ti ritrovi a guardare le immagini con la faccia estasiata, pensando che non esista modo migliore per mostrare quello che stai vedendo.
Ma quando si tratta di Godard, sembra proprio che non si possa far altro che guardare questi piani e sentire il loro potere, più delle parole più di qualsiasi discorso fatto a priori. Godard si guarda e poi si discute e si riflette nell’idea che il cinema sia una forma d’arte semplice, che spesso dimentichiamo essere tale.
Bande à Part è un film di momenti. La storia della rapina fa semplicemente da sfondo ad un lungometraggio che si basa sugli istanti apparentemente banali della vita quotidiana. E’ la forza di Godard prendere i momenti morti dal punto di vista dell’intreccio e da questi generare il film. Forse proprio per quella concezione secondo la quale il cinema deve avvicinarsi alla vita.
Franz, Odile, Arthur tre ragazzi che fanno comunella divertendosi in una Parigi avvolta dalla nebbia (il titolo viene proprio dal francese faire band à part che corrisponde all’italiano fare comunella). La vita diventa così una commedia beffarda e spensierata: la lezione d’inglese che nessuno segue, il pomeriggio al bar fra le battute e i dispetti infantili. Ma è proprio questo a diventare interessante, come la famosa sequenza del balletto, dove tra un passo e l’altro la voce narrante dello stesso Godard ci svela i pensieri dei tre amici. O la decisione del minuto di silenzio, dove non sono soltanto Franz, Odile e Arthur a stare zitti ma è proprio l’audio ad essere staccato per una trentina di secondi.
Ma poi i primi piani ai volti di Odile, gli sguardi carichi di tristezza ci trasportano in un’altra dimensione della vita, quella in cui si accantonano i giochi per dare spazio ai pensieri e alle riflessioni; come l’inquadratura fissa a Odile che canta all’interno del metrò, quegli sguardi persi nel vuoto e il treno che va, da dove, fuori, s’ intravede come un miraggio la parola liberté che è, alla fine, tutto quello che vagando andiamo a cercare.
Gli squarci di una Parigi invernale, che fanno parte del film e della storia così come ne fanno parte i personaggi, i boulevard notturni e le sponde della Senna con i suoi bouquinistes dove comprare quei libretti di serie b che possono dare sempre un’idea. Quell’idea che lo stesso Godard trae da Fool’ s Gold di Dolores Hitchens per concepire questo film.
Ma il tempo scorre e il colpo va messo a segno; e come nei polizieschi che si rispettino bisogna aspettare che faccia notte. E allora l’ultima trovata della combriccola l’indimenticabile corsa all’interno del Louvre per tentare di battere il record mondiale di Jimmy Johnson. Ci riusciranno regalandoci una delle sequenze più assurde, esilaranti e memorabili della storia del cinema.
Questi momenti hanno trovato posto in molte scene di altri film, sono state citate o meglio ancora semplicemente riproposte e a loro volta sono diventati dei veri e propri cult. Forse proprio perché Band à part è quel cinema che si mescola alla vita, dove l’istante apparentemente vuoto si trasforma in indelebile ricordo.