
La polemica che Buñuel rivolge alla religione è un attacco all’idealizzazione del mondo e la poetica del Maestro che fa capo all’avanguardia surrealista, si pone – banalizzando al massimo– di vedere la parte sommersa dell’ice-berg. E’ in quest’ottica che va letta Viridiana: da una parte la prospettiva rovesciata, anti-idealistica e non religiosa, che non sia il bene a trionfare sul male ma anzi il contrario e dall’altra la volontà di leggere ciò che non è scritto.
Viridiana è una giovane novizia che, su consiglio della madre superiora, poco prima di pronunciare i voti si reca a trovare Don Jaime, suo zio e suo benefattore. E’ da questo ritorno nella quotidianità che Buñuel fa scontrare la ragazza (che nella sua veste di religiosa rappresenta il bene) con la realtà che invece scoprirà essere permeata dal male. La pellicola è una sintesi di tutti i temi cari al regista: vi troviamo il suo spiccato animo anticattolico e antiborghese, l’indole anarchica, il cinismo verso il moralismo e naturalmente l’attenzione alla sfera psicoanalitica.
Don Jaime rappresenta un’antica aristocrazia terriera spagnola, dedita alle opere di bene e al lavoro. La moglie di Don Jaime è morta il giorno delle nozze e da allora l’uomo per ricordarla usa indossare il suo abito da sposa. Una sera convince Viridiana ad indossare l’abito della defunta moglie e dopo averla addormentata cerca di abusare di lei senza però riuscirci. Il mattino dopo le fa credere d’averla posseduta gettando la ragazza nello sconforto. Viridiana decide quindi di tornare in convento, ma appena prima di salire sull’autobus viene a conoscenza di una terribile notizia: Don Jaime si è impiccato.
In questa prima parte del film Buñuel utilizza uno dei suoi abituali e amati cliché: quello del lapsus d’azione. L’evento, cioè, che prende una strada del tutto diversa a causa di una circostanza che imprevedibilmente non ha luogo. La morte della moglie il giorno delle nozze rimanda al feticismo sessuale di Don Jaime; il mancato atto d’amore porta al suicidio e soprattutto la mancata partenza, per una manciata di secondi, di Viridiana, sancirà, con il ritorno a casa dello zio, la definitiva sconfitta del “bene”.
Ritornata alla tenuta Viridiana incontra suo cugino Jorge. Egli rappresenta il doppio moderno del vecchio Don Jaime, lo sviluppo dall’antica aristocrazia terriera alla borghesia rampante. Buñuel, ricalcando quello che all’epoca nella società spagnola fu il passaggio da “vecchio” a “nuovo”, mostra come un popolo pur apparentemente evolvendosi, conservi in sé le medesime accezioni negative che hanno caratterizzato le generazioni precedenti. La ragazza decide di rimanere ed approfittare di una parte della casa per esercitare il suo spirito di religiosa, trasformando una parte del possedimento in un ostello per poveri. La critica di Buñuel si rivolge ai mendicanti esattamente come alla ricca aristocrazia e ai religiosi, tra questi mondi per il regista non c’è alcuna differenza: è solo la compassione (intesa nel suo significato più popolare ovvero come pietà e non come patire con ovvero soffrire insieme) che porta l’uomo a guardare alla miseria senza la lucidità necessaria. Per sottolineare le similitudini tra questi mondi Buñuel, lavorando sul montaggio, contrappone la scena in cui Viridiana prega insieme ai mendicanti alle immagini di operosità del lavoro, al fine di porre l’accento sul meccanicismo di entrambe le azioni. Dal punto di vista del montaggio, anche se del tutto funzionale al racconto, è uno dei rari guizzi di ricerca stilistica presente nel cinema del Maestro. Buñuel non è tanto interessato alla ricerca estetica quanto al voler trasmettere le sue tesi, costruendo il film in una forma abbastanza semplice di melodramma. Le sue immagini sono pacate, il bianco e nero sobrio e la macchina da presa segue le azioni dei personaggi senza scomporsi. Una dolcezza di stile che spesso può anche stonare con ciò che invece il regista sta mostrando; il tocco di Buñuel è il tocco di un maestro, le sue immagini contro la religione, irriverenti, forse blasfeme non sono mai rozze e scontate, ma sempre di una ricercatezza eccellente si schiudono e richiudono nel gioco dell’intravedere. Si pensi ad esempio a Don Jaime che guarda la bambina della governante mentre gioca con la corda (che personalmente trovo agghiacciante), oppure, celando riesce a mostrare immagini ancor più sconvolgenti: nell’epilogo del film, il banchetto dei mendicanti, due dei conviviali consumano un rapporto sessuale dietro un divano dove sono messi a dormire i bambini; Buñuel non mostra tanto i due adulti ma inquadra in primo piano i volti dei bimbi come a voler mostrare che anche l’innocenza capace di fermare l’immoralità, altro non è che un alibi di cristiana memoria. Ma è nell’epilogo del film che si condensa tutta l’anima surrealista di Buñuel: rimasti soli i mendicanti decidono di dare un banchetto nella parte della casa dove viveva Don Jaime, trasformando quella che doveva essere una cena “da ricchi” in una chiassosa orgia. Sporcano e distruggono la quiete che nascondeva la vera anima della casa, trasformano in esplicito ciò che era stato fino a quel momento celato. Per poi mettersi in posa per quella foto mai scattata sull’Ultima Cena con cui Buñuel, maestro in irriverenza, tocca uno dei picchi più elevati della sua sarcastica iconoclastia.