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Un Chien Andalou di Luis Buñuel


Tra gli anni ’10 e ’20 del ‘900 le avanguardie artistiche videro nel cinema un ulteriore strumento per esprimersi, nacque così il cinema d’avanguardia: contraddistinto da uno spiccato sperimentalismo, esso si manifestò come il cinema anti-commerciale per eccellenza. Tra queste vi era anche il movimento surrealista che annoverava tra i suoi fondatori Luis Buñuel che non solo individuò nel nuovo mezzo un’altra possibilità d’espressione, ma scoprì come il cinema, grazie alla sua forma naturalmente illusoria, potesse rappresentare il complesso mondo dell’inconscio.
Un chien andalou è il corrispettivo filmico del Primo Manifesto del Surrealismo di André Breton, voci vogliono che la pellicola nasca da due sogni che Buñuel e Dalì fecero nella stessa notte. Al di là del mito, il film ritrae su pellicola le coordinate del movimento surrealista: la dimensione privilegiata dell’Es con le sue pulsioni sessuali e violente, la rivoluzione di matrice marxiana e la condanna al Cristianesimo.
A partire dalla scena iniziale dell’occhio tranciato da un rasoio (per il quale il regista utilizzò un occhio vero) lo spettatore è invitato a dimenticare il visibile per addentrarsi nel mondo dell’Es dove ad imporsi è una dimensione fantasmica non regolata dalle logiche della ragione. Come vuole la scuola freudiana, alla quale si rifà il gruppo, le immagini procedono sullo schermo senza filo narrativo o logico ma per associazioni astratte come avviene durante i sogni e nel modo in cui è possibile leggere l’inconscio.
Il tema centrale è la costruzione dell’identità sessuale del protagonista che si realizza attraverso le avventure discontinue del desiderio e in diverse forme di regressione, molte delle quali si riallacciano alla simbologia Cristiana e alla Passione.
In un chien andalou Buñuel ha inserito i presupposti che saranno poi propri della sua ricerca artistica dimostrandosi fin da subito un regista abile nel maneggiare il cinema al fine di costruire un tessuto visivo in grado di rivelare le molteplici sfaccettature dell’inconscio.
originariamente pubblicato su IL MACHETE

Gli Abbracci Spezzati di Pedro Almodóvar


Mateo è un regista che, colpito da un grave incidente, resta cieco e decide di cambiare la sua persona in quella di Harry. Accanto a sé in questa trasformazione rimangono la sua assistente di un tempo, Judit, e Diego, il figlio di lei. E’ in occasione di un incidente di quest’ultimo che Harry decide di narrare al ragazzo della sua storia, e, indirettamente di quella della madre, rimasta celata per tanti anni.
Strutturato come una prolessi che dura tutto il racconto di Harry, Gli abbracci spezzati non sorprende come novità, c’è nella pellicola un senso di familiarità che lo spettatore percepisce fin dall’inizio, prerogativa questa, che conferma la stabilità del tratto di Almodóvar, delle ossessioni e dei motivi di una personalità che viene costantemente riversata in pellicola; ritroviamo il tema dell’omosessualità, sempre toccato in modo leggiadro, il culto della bellezza femminile, l’amicizia disinteressata ed i rapporti interpersonali che si costituiscono in una sorta di famiglia allargata che esula dall’idea borghese e stabilisce relazioni tra gruppi di persone non necessariamente legati da conformismi.
Benché si tratti di una prolessi il regista procede per l’intera pellicola con un modus operandi di stampo prettamente classico, conferendo così all’opera una certa quiete espressiva che si smorza nella complessità nel soggetto che decide di sviluppare; in questo Almodóvar ricorda la lezione di Buñuel, dove la forma e il contenuto stonano tra di loro proprio per quel contrasto creato tra la semplicità dell’una e la complessità dell’altro. Il ritorno al classico, lo sguardo rivolto all’indietro è il fil rouge dell’intero film, anche dal punto di vista strettamente filmico, infatti, si ricorre spesso all’inutilizzo della profondità di campo.
La storia che Harry racconta è insieme uno svelarsi a Diego e a se stesso, in una sorta d’introspezione che lo farà ricongiungere con la sua vera identità ovvero quella di Mateo e del regista, la cecità non è un incidente a caso ma la causa che lo ha allontanato dal motivo della sua vita: l’immagine.
La pellicola segue i toni del Melò (altra caratteristica che avvicina Almodóvar a Buñuel), al suo centro vi è la storia dell’amore impossibile tra Mateo e Lena; ancora una volta il regista pone l’attenzione sulla donna, che insieme è diva, madre ed amante, il perno dal quale scaturisce tutta l’azione; l’omaggio alla figura femminile non passa, come in Volver, attraverso le donne comuni, sanguigne, capaci di sbrogliarsi dalle situazioni più dure grazie ad una forza d’animo invidiabile, ma nella figura dell’attrice e della diva da Audrey a Marilyn in modo da riuscire a dimostrare come la donna, che sia una puttana o un’attrice di fama mondiale, non abbandona le sue prerogative.
Gli abbracci spezzati non raggiunge ovviamente i toni di Tutto su mia madre, ma resta un’opera ben fatta, capace di stupire lo spettatore e malgrado qualche momento di ritmo languente, la struttura classica della pellicola con tanto di coup de theatre riesce a tendere ben desta l’attenzione del pubblico fino all’ultima scena.

Viridiana di Luis Buñuel


La polemica che Buñuel rivolge alla religione è un attacco all’idealizzazione del mondo e la poetica del Maestro che fa capo all’avanguardia surrealista, si pone – banalizzando al massimo– di vedere la parte sommersa dell’ice-berg. E’ in quest’ottica che va letta Viridiana: da una parte la prospettiva rovesciata, anti-idealistica e non religiosa, che non sia il bene a trionfare sul male ma anzi il contrario e dall’altra la volontà di leggere ciò che non è scritto.
Viridiana è una giovane novizia che, su consiglio della madre superiora, poco prima di pronunciare i voti si reca a trovare Don Jaime, suo zio e suo benefattore. E’ da questo ritorno nella quotidianità che Buñuel fa scontrare la ragazza (che nella sua veste di religiosa rappresenta il bene) con la realtà che invece scoprirà essere permeata dal male. La pellicola è una sintesi di tutti i temi cari al regista: vi troviamo il suo spiccato animo anticattolico e antiborghese, l’indole anarchica, il cinismo verso il moralismo e naturalmente l’attenzione alla sfera psicoanalitica.
Don Jaime rappresenta un’antica aristocrazia terriera spagnola, dedita alle opere di bene e al lavoro. La moglie di Don Jaime è morta il giorno delle nozze e da allora l’uomo per ricordarla usa indossare il suo abito da sposa. Una sera convince Viridiana ad indossare l’abito della defunta moglie e dopo averla addormentata cerca di abusare di lei senza però riuscirci. Il mattino dopo le fa credere d’averla posseduta gettando la ragazza nello sconforto. Viridiana decide quindi di tornare in convento, ma appena prima di salire sull’autobus viene a conoscenza di una terribile notizia: Don Jaime si è impiccato.
In questa prima parte del film Buñuel utilizza uno dei suoi abituali e amati cliché: quello del lapsus d’azione. L’evento, cioè, che prende una strada del tutto diversa a causa di una circostanza che imprevedibilmente non ha luogo. La morte della moglie il giorno delle nozze rimanda al feticismo sessuale di Don Jaime; il mancato atto d’amore porta al suicidio e soprattutto la mancata partenza, per una manciata di secondi, di Viridiana, sancirà, con il ritorno a casa dello zio, la definitiva sconfitta del “bene”.
Ritornata alla tenuta Viridiana incontra suo cugino Jorge. Egli rappresenta il doppio moderno del vecchio Don Jaime, lo sviluppo dall’antica aristocrazia terriera alla borghesia rampante. Buñuel, ricalcando quello che all’epoca nella società spagnola fu il passaggio da “vecchio” a “nuovo”, mostra come un popolo pur apparentemente evolvendosi, conservi in sé le medesime accezioni negative che hanno caratterizzato le generazioni precedenti. La ragazza decide di rimanere ed approfittare di una parte della casa per esercitare il suo spirito di religiosa, trasformando una parte del possedimento in un ostello per poveri. La critica di Buñuel si rivolge ai mendicanti esattamente come alla ricca aristocrazia e ai religiosi, tra questi mondi per il regista non c’è alcuna differenza: è solo la compassione (intesa nel suo significato più popolare ovvero come pietà e non come patire con ovvero soffrire insieme) che porta l’uomo a guardare alla miseria senza la lucidità necessaria. Per sottolineare le similitudini tra questi mondi Buñuel, lavorando sul montaggio, contrappone la scena in cui Viridiana prega insieme ai mendicanti alle immagini di operosità del lavoro, al fine di porre l’accento sul meccanicismo di entrambe le azioni. Dal punto di vista del montaggio, anche se del tutto funzionale al racconto, è uno dei rari guizzi di ricerca stilistica presente nel cinema del Maestro. Buñuel non è tanto interessato alla ricerca estetica quanto al voler trasmettere le sue tesi, costruendo il film in una forma abbastanza semplice di melodramma. Le sue immagini sono pacate, il bianco e nero sobrio e la macchina da presa segue le azioni dei personaggi senza scomporsi. Una dolcezza di stile che spesso può anche stonare con ciò che invece il regista sta mostrando; il tocco di Buñuel è il tocco di un maestro, le sue immagini contro la religione, irriverenti, forse blasfeme non sono mai rozze e scontate, ma sempre di una ricercatezza eccellente si schiudono e richiudono nel gioco dell’intravedere. Si pensi ad esempio a Don Jaime che guarda la bambina della governante mentre gioca con la corda (che personalmente trovo agghiacciante), oppure, celando riesce a mostrare immagini ancor più sconvolgenti: nell’epilogo del film, il banchetto dei mendicanti, due dei conviviali consumano un rapporto sessuale dietro un divano dove sono messi a dormire i bambini; Buñuel non mostra tanto i due adulti ma inquadra in primo piano i volti dei bimbi come a voler mostrare che anche l’innocenza capace di fermare l’immoralità, altro non è che un alibi di cristiana memoria. Ma è nell’epilogo del film che si condensa tutta l’anima surrealista di Buñuel: rimasti soli i mendicanti decidono di dare un banchetto nella parte della casa dove viveva Don Jaime, trasformando quella che doveva essere una cena “da ricchi” in una chiassosa orgia. Sporcano e distruggono la quiete che nascondeva la vera anima della casa, trasformano in esplicito ciò che era stato fino a quel momento celato. Per poi mettersi in posa per quella foto mai scattata sull’Ultima Cena con cui Buñuel, maestro in irriverenza, tocca uno dei picchi più elevati della sua sarcastica iconoclastia.

Le Fantôme de la Liberté di Luis Buñuel


Tatatatn... rullo di tamburi, musichetta di suspence... ho scritto una recensione su quel gioiello infinito d' intelligenza e sarcasmo che è Le Fantôme de la Liberté. Film quanto mai indicato al clima di questi bui e tristi tempi... eventualmente c'è sempre spike lee da vedere o i cohen o qualche nome di cui ignoro l' esistenza, che di sicuro ne sanno più di Buñuel...


Le Fantôme de la Liberté è un film corale dove i personaggi si moltiplicano in uno spazio che diventa intensamente claustrofobico. Figure legate tramite affinità che come colori si fondono per delineare l’ultimo grande affresco della società secondo Buñuel. Il penultimo film del Maestro ci appare così: un ricco testamento colmo delle tematiche che hanno animato la sua opera fin dall’esordio con “Un Chien Andalou”. Proprio come il primo gioiello del regista anche questo diventa uno dei suoi film più surreali, densi di significati e soluzioni di lettura. Ma dall’esordio è passato quasi mezzo secolo e la società è radicalmente cambiata e così l’approccio di Buñuel ad essa. La chiave di lettura va allora ricercata nel titolo la cui presunta irrazionalità lo rende ambiguo fin da principio. E’ davvero insensato o cela i significati di tutta l’opera? Se il nonsense nell’opera diviene realtà allora è nell’irrazionale stesso che va cercata la logicità? ...


se volete leggerla per intero trovate il seguito su CONTROREAZIONI... un blog davvero interessante che vi consiglio di seguire!(e non lo dico perchè c'è una mia recensione^^, anche perchè se non l' avessi trovato interessante non gli avrei chiesto di poter scrivere per loro)... ok smetto perchè sto dicendo scemenze e sembro la pubblcità di quelle aziende che ti danno i mutui per la casa... andate a leggere va!

Bella di Giorno di Luis Buñuel

L’oscillazione tra il sogno e la realtà, l’ordinario e lo straordinario che si fondono assieme fino a confondersi.
Che Bella di Giorno sia un film interessante e dalle molteplici sfaccettature non c’è ombra di dubbio, guardandolo però la cosa che più ha intrigato è stata la simbologia. Il fatto che la maggior parte degli elementi siano predisposti con la sapienza di un gran maestro del surrealismo, capace di mostrare il significato recondito dello spirito umano attraverso oggetti che potrebbero sembrare banali. Ogni simbolo ha evocato significati che hanno a loro volta mostrato sentimenti, schiudendo un labirintico mondo onirico nel quale non si finisce mai di trovare e scoprire.
Séverine (Catherine Deneuve) è una donna insoddisfatta che gli eventi e la banalità della vita borghese hanno reso frigida e distaccata. Nell’estremo tentativo di ritrovare se stessa finirà per prostituirsi e diventerà così Bella di Giorno.
La storia oscilla tra i due mondi, quello onirico della fantasia e del desiderio e quello della realtà, del vivere quotidiano. Buñuel rappresenta così un elemento basilare del surrealismo, quello del sogno inteso come momento di liberazione dove l’essere umano esprime il suo istinto reale, diventando allo stesso tempo luogo di rifugio contrapposto al mondo. Séverine prostituendosi da vita reale ai suoi sogni e attraverso questo comportamento considerato immorale e corrotto cercherà in una sorta di analisi di ritrovare se stessa. La casa di madame Anaïs diventa così una specie di limbo tra il reale e l’irreale.
Il reale rappresentato dalle colleghe, che si prostituiscono per un bisogno prettamente materiale e che la sentono diversa da loro chi sei? chiede Charlotte guardando i bei vestiti di Séverine; d’altro lato l’ irreale: il professore dalle bizzarre fantasie sessuali e il cinese dalla scatola misteriosa che parlando una lingua a loro incomprensibile si relega automaticamente nel mondo dell’ ignoto.
I sogni di Séverine risultano poi essere particolarmente interessanti soprattutto nel significato simbolico.
La costante dei sogni è il suono di campane e campanelli. Da sempre la campana ha significato di avvertimento (le campane della chiesa che segnano il fluire del tempo, che avvisano dell’ inizio e della fine della messa). Con questo suono sembra quasi avvertire gli spettatori che è l’ inizio del sogno. Un altro elemento caratteristico dei sogni di Séverine è il paesaggio autunnale, e se, da una parte l’ autunno è il momento che associamo alla tristezza, al cadere delle foglie, all’ arrivo dell’ inverno e più generalmente all’ idea di fine e morte, qui Buñuel sembra soffermarsi sul significato del colore emblema dell’ autunno: il marrone, che rappresenta infatti la soddisfazione del desiderio sessuale e la necessità di essere liberati da ciò che opprime.
Due sembrerebbero essere i sogni cui il regista a voluto dare più rilievo: il sogno della mandria e quello del rito necrofilo.
Il sogno della mandria è il sogno che rappresenta la svolta, dove Séverine indossa per l’ ultima volta i panni della vittima. E’ il sogno con più richiami alla situazione reale di Séverine.
Pierre e Husson curano una mandria di bestiame nella Camargue. I due uomini sono intorno al fuoco, riscaldano una zuppa e Pierre esclama: “E’ gelata, non riesco a scaldarla” è il primo e chiaro riferimento alla moglie, con la quale ha un rapporto distaccato. Alla domanda che ore sono invece risponde “Dalle due alle cinque, ma non più tardi delle cinque!”, il momento in cui Séverine è a casa di madame Anaïs (sentiamo spesso ripetere Séverine ma non più tardi delle 5).
“Hai tori si danno gli stessi nomi come ai gatti?”
Qui si introduce un altro elemento ricco di significati simbolici, il gatto; sarà proprio il miagolio a diventare un’ altra consuetudine nei sogni di Séverine e ad introdurli insieme al suono delle campane.
Il gatto animale misterioso nella sua storia adorato o bistrattato è stato spesso il simbolo della magia, del maligno di un mondo notturno e ignoto. Eppure qui risulta avere una valenza del tutto positiva: attraverso il miagolio insieme alle campane saranno introdotti sogni che, come avevo accennato, vedranno la presa di coscienza di Séverine che si trasforma anche nel mondo onirico in fautrice dei suoi desideri, non sognandosi più come oggetto passivo ma bensì come elemento attivo e conscio delle sue decisioni. Il gatto è da un lato la sentinella che con il miagolio ci avverte dell’ entrata nel sogno, dall’ altra è (in Freud) l’ eterno femmineo, simbolo della donna padrona di se stessa.
Nel sogno del rito necrofilo si vede in un primo tempo una Séverine pacata che sorseggia latte (simbolo della vita e della purezza) al Bois de Boulogne. L’ ambientazione belle époque esplica che siamo nella realtà altra. L’ incontro con il duca e il dialogo tra i due si presenta come uno scambio di battute surreale dove in ogni parola è celata l’ idea di morte (la gatta, la notte, il sole nero). Séverine acconsente di prendere parte ad uno strano rito che verrà compiuto nella villa del duca.
Come si è visto fino a questo punto tutto il film è incentrato sulla figura di Séverine, ogni altro personaggio diventa marginale e ruota intorno alla complessa caratterizzazione psicologica della protagonista. Ne è un esempio anche il muoversi stesso della macchina da presa: molti eventi accadono fuori dal quadro e ci sono presentati soltanto attraverso le espressioni del volto di Séverine.

Ad assumere il ruolo di personaggio dalla svolta è Marcel interpretato da un più che mai fascinoso Pierre Clémenti. Fin dal suo esordio si capisce che sarà colui che cambierà gli equilibri della storia.
Il lungo impermeabile nero, la pelle diafana, i denti argentati fanno di Marcel l’ anima dannata, capace di sentimenti estremi di amore e morte. Sarà l’ unico a imporsi veramente a Séverine volendo amarla anche di notte. Un personaggio del tutto teatrale sia nella caratterizzazione fisica, ma anche e soprattutto della mimica e nella gestualità: i movimenti del bastone, la voce cadenzata, le espressioni del volto ne fanno una maschera. Clementi sembra muoversi tra gli ambienti del film come su un palcoscenico, con una presenza, che al pari di quella di Séverine relega gli altri attori a spettatori.