Visualizzazione post con etichetta cinema spagnolo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cinema spagnolo. Mostra tutti i post

I Colori di Almodóvar

«A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre»

Da Tutto Su Mia Madre

Il colore è una costante significativa nell’opera di Almodóvar: da Pepi, Luci, Bom… (1980) a Gli abbracci spezzati (2009), la fotografia vivida e le scenografie al limite del kitsch  — se vogliamo intendere questa parola nella sua connotazione positiva —  riconduce a livello espressivo i contenuti spesso violenti delle sue pellicole.
Fin dagli albori della carriera, Almodóvar si è distinto come il regista dei proscritti, tessendo storie fatte di passioni sanguigne e di amori al limite che s’intrecciano, però, con la quotidianità: anche quando i suoi protagonisti fanno parte di cerchie marginali non sono avulsi dalla società, ma vivono nella concretezza del mondo reale. Ad accoglierli è lo sfondo di una Spagna mediterranea, con la sua musica, i suoi profumi, la sua gente ricca di un passato complesso e contraddittorio; da tale contesto culturale il regista riprende e fa proprio uno dei suoi tratti fondamentali, vale a dire la struttura spiccatamente matriarcale di una società dove la donna, la madre è la protagonista indiscussa.
Nel disegno di Almodóvar la donna, che sia popolana o diva, è fonte di vita e come tale è capace di generare una forza inesistente nell’universo maschile: non a caso gli uomini appaiono sempre in secondo piano, sono presenze fantasmiche come in Tutto su mia madre (1999), folli come in Légami! (1989) o pesi da eliminare come in Volver (2006).


L’universo femminile non si restringe soltanto ad un genere, ma a tutti coloro che si sentono donna.
Il mondo di Almodóvar si costella di queer, che con naturalità e senza pregiudizio, si accomunano e solidarizzano creando un adorabile melting pot sessuale che non può fare a pugni con la società che il regista ritrae, proprio perché matriarcale e fondamentalmente femminista. Anche quando descrive le lande più remote della Spagna, tradizionalmente legate ad una cultura cattolica, le donne non sono mai sfiorate dal pregiudizio nei confronti di figli, amici o conoscenti dalla sessualità non sempre definita. Almodóvar, infatti, non attacca la cultura cattolica popolare, fatta delle sue tradizioni e delle sue superstizioni, che anzi con la sua iconografia contribuisce a vivacizzare gli scenari, ma prendendo spunto dal Buñuel, aggredisce il mondo clericale, bigotto e spesso unico vero luogo di perversione: con La mala educación (2004) si avvicina al tema scottante della pedofilia, creando una pellicola di forte impatto emotivo che regala allo spettatore una lucida visione sulle conseguenze di un’infanzia negata proprio da chi si fa mentore di proteggerla.
Emblema della poetica del regista spagnolo rimane però Tutto su mia madre: nonosatnte sembri scontato citarla, essa sviluppa tutte le tematiche abbozzate nelle pellicole precedenti ed anticipa quelle dei film successivi. La forza della donna è presentata nel contesto della perdita e della fine, le sue protagoniste sono al tramonto della carriera come Huma o della vita come Maria, ma non rinnegano la possibilità che dalla perdita rinasca nuova vita. La vita è come un palcoscenico (altro tema carissimo ad Almodóvar è quello dello spettacolo) dove dopo la caduta è necessario rialzarsi, e grazie alla coesione che esse dimostrano possono procedere nell’esistenza: la morte, la malattia, la droga ne fanno parte e come tali non vanno subite ma combattute.



Il regista mostra una forza d’animo invidiabile delle donne che ritrae, poiché esse sono coscienti –come sottolinea Agrado – che l’autenticità costa molto. E quest’autenticità che le donne cercano, se letta in senso più ampio, è la volontà di essere libere dagli schemi e dai pregiudizi di una società che da sempre le ha subordinate agli uomini, rivendicandosi grazie alla loro capacità congenita di lottare.
Nella sua opera Almodóvar non ha solo dimostrato di essere un eccellente regista, capace di trasmettere al pubblico emozioni di ogni natura, ma soprattutto ha saputo e sa essere il regista di tutte le donne, poco importa a conti fatti, se molte di queste sono nate in un corpo da uomo.

-->

Gli Abbracci Spezzati di Pedro Almodóvar


Mateo è un regista che, colpito da un grave incidente, resta cieco e decide di cambiare la sua persona in quella di Harry. Accanto a sé in questa trasformazione rimangono la sua assistente di un tempo, Judit, e Diego, il figlio di lei. E’ in occasione di un incidente di quest’ultimo che Harry decide di narrare al ragazzo della sua storia, e, indirettamente di quella della madre, rimasta celata per tanti anni.
Strutturato come una prolessi che dura tutto il racconto di Harry, Gli abbracci spezzati non sorprende come novità, c’è nella pellicola un senso di familiarità che lo spettatore percepisce fin dall’inizio, prerogativa questa, che conferma la stabilità del tratto di Almodóvar, delle ossessioni e dei motivi di una personalità che viene costantemente riversata in pellicola; ritroviamo il tema dell’omosessualità, sempre toccato in modo leggiadro, il culto della bellezza femminile, l’amicizia disinteressata ed i rapporti interpersonali che si costituiscono in una sorta di famiglia allargata che esula dall’idea borghese e stabilisce relazioni tra gruppi di persone non necessariamente legati da conformismi.
Benché si tratti di una prolessi il regista procede per l’intera pellicola con un modus operandi di stampo prettamente classico, conferendo così all’opera una certa quiete espressiva che si smorza nella complessità nel soggetto che decide di sviluppare; in questo Almodóvar ricorda la lezione di Buñuel, dove la forma e il contenuto stonano tra di loro proprio per quel contrasto creato tra la semplicità dell’una e la complessità dell’altro. Il ritorno al classico, lo sguardo rivolto all’indietro è il fil rouge dell’intero film, anche dal punto di vista strettamente filmico, infatti, si ricorre spesso all’inutilizzo della profondità di campo.
La storia che Harry racconta è insieme uno svelarsi a Diego e a se stesso, in una sorta d’introspezione che lo farà ricongiungere con la sua vera identità ovvero quella di Mateo e del regista, la cecità non è un incidente a caso ma la causa che lo ha allontanato dal motivo della sua vita: l’immagine.
La pellicola segue i toni del Melò (altra caratteristica che avvicina Almodóvar a Buñuel), al suo centro vi è la storia dell’amore impossibile tra Mateo e Lena; ancora una volta il regista pone l’attenzione sulla donna, che insieme è diva, madre ed amante, il perno dal quale scaturisce tutta l’azione; l’omaggio alla figura femminile non passa, come in Volver, attraverso le donne comuni, sanguigne, capaci di sbrogliarsi dalle situazioni più dure grazie ad una forza d’animo invidiabile, ma nella figura dell’attrice e della diva da Audrey a Marilyn in modo da riuscire a dimostrare come la donna, che sia una puttana o un’attrice di fama mondiale, non abbandona le sue prerogative.
Gli abbracci spezzati non raggiunge ovviamente i toni di Tutto su mia madre, ma resta un’opera ben fatta, capace di stupire lo spettatore e malgrado qualche momento di ritmo languente, la struttura classica della pellicola con tanto di coup de theatre riesce a tendere ben desta l’attenzione del pubblico fino all’ultima scena.