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Sauvage Innocence di Philippe Garrel




François è un giovane cineasta, conosciuto ma marginale, alle prese con la realizzazione di un film contro l’eroina, un’opera che deve essere scevra di moralismi dove la protagonista, Marie-Thérèse, rivive la vita di Carole un tempo donna di François, morta per overdose. Ciò che desidera il giovane regista, però, è creare un film dove il drogato non deve essere stereotipato e risultare, come spesso accade, un ribelle che quindi rischia di affascinare lo spettatore ma la droga deve essere descritta per quello che è: una peste che distrugge le persone ed i rapporti.
Il film, girato in bianco e nero e come di consueto a metà strada tra l’intimismo (la storia di François come cineasta marginale ricalca quella di Philippe Garrel) e l’universale (il rapporto tra vita e arte), si divide in due parti dove gli stessi personaggi assumono significati diversi; nella prima parte il bianco e nero rende romantiche le vicende: François che incontra il piccolo figlio di Carole, l’incontro con Lucie che diventerà l’attrice protagonista del film e le discussioni con amici e parenti sul significato del raccontare attraverso il cinema.


L’atmosfera si fa pesante quando i rapporti con la produzione diventano via via più complessi, François una volta convinto di aver ottenuto i finanziamenti dal produttore, si ritrova invece sbattuto malamente fuori dall’ufficio e senza risorse per girare il film. Indeciso sul da farsi, ma sempre più convinto di dover girare il film ad ogni costo, è costretto a rivolgersi a Chas, un mecenate che intende finanziarlo ma alle sue condizioni: pur d’iniziare a girare François accetta di andare a prendere una partita di droga in Italia, i cui proventi serviranno al film, il giovane si trova così coinvolto in ciò che voleva denunciare.
Se la costruzione metacinematografica ci può far pensare a la Nuit Américaine, Sauvage Innocence non ne condivide, però, lo spirito di condensare nella vita l’esperienza cinematografica e viceversa. I protagonisti si trovano a vivere nel reale ciò che la pellicola narra, François sempre più coinvolto nei meccanismi della droga e Lucie che per farsi amare da François ed incarnare meglio il suo personaggio inizia a farsi di eroina.
I rapporti umani si sgretolano mano a mano che il film si compie: Lucie diventa la musa che perisce dell’arte del suo amato, ricordando l’Anna Karina di Vivre Sa Vie nel momento in cui si legge il brano di vampirismo artistico tratto da Edgar Allan Poe.
Il bianco e nero romantico e sognante della parte iniziale, delle speranze e delle aspettative, si trasforma nel bianco e nero della tragedia e del vuoto di senso, dove le esistenze manovrate come burattini da un destino avverso vengono travolte e risucchiate dal cinema e dall’arte che per questa volta non salva ma uccide.

Les Amants Réguliers di Philippe Garrel - secondo tempo


Garrel non ha bisogno d’ingannare, ostentare un’astratta alterazione della realtà non è necessario, il cinema è invenzione a patto che non menta mai a se stesso.
Quando si discute di un film del genere, di un autore del genere, sarebbe meglio non soffermarsi soltanto a quello che si vede, andare di là dal film in sé, magari non parlarne come un giudice che emette condanne a morte, ma ascoltare il cuore. E in quei punti, che sono tanti, dove per ovvie limitazioni non possiamo andare al di là delle apparenze, meglio stare zitti e analizzare opere limpide o film i cui esecutori si sono già presi la briga di spiegare.
Per capire del tutto Garrel bisognerebbe farci una bella chiacchierata, perché nei suoi film Garrel ha buttato la sua vita, l’ ha conficcata dentro ogni singolo minuto. Se sentiamo Nico, quando Nico non ci dovrebbe essere, perché bollarlo come un’anacronismo?! Se vediamo una mamma, un nonno e un nipote insieme allo stesso tavolo che sono anche mamma, nonno e nipote nella vita vera (ma qual è la vita vera?), non chiediamoci perché. Qualcuno ha detto che il cinema deve mescolarsi alla vita, allora facciamo sì che si mescoli. Non diciamo che è inutile ai fini dell’ intreccio, non andiamo a cercarne significati reconditi; guardiamo la bellezza delle immagini, l’ incrociarsi degli sguardi, la favola del bianco e nero. Se Garrel l’ ha fatto avrà il suo buon motivo, o forse non l’ avrà. Parleranno solo le immagini. Le immagini possono bastare a se stesse. E’ cinema.
Parlando de Les Amants Réguliers Garrel ha affermato che il film si ascrive in quella parte di cinema che pensa che l’ Atalante di Vigo sia il film più bello del mondo. Parlando dell’ Atalante Truffaut aveva detto: “Vigo trasforma la realtà in incantesimo e nel filmare prosa ottiene senza sforzo poesia”. Quello che volevo dire di questo film e di questo cinema l’ ha già detto sfiorando la perfezione questa frase. Garrel filma la vita e ne tira fuori la poesia. Forse perché ha avuto una vita poetica, forse perché è un poeta, non ne ho la più pallida idea. L’ unica cosa che so è che la macchina da presa di Garrel riesce a creare un ponte tra il nostro sguardo e il suo, modellando sulla vita un cinema personale che non cade mai nel mero autobiografismo.
I film si analizzano, è vero. Ma film come questi si possono anche solo amare di un amore disinteressato. Così non sarà come guardare un film, sarà come guardare il film. Ogni pellicola amata finisce per essere, anche un po’ infantilmente, la pellicola. Mentre guardate Les Amants Réguliers, dovete scordarvi tutto il resto.
Sedetevi su quel divano in mezzo a François e a Lilie. Scappate nella notte, saltando sui tetti di Parigi, magari ad una finestra scorgerete il piccolo Doinel che vi ride dietro. Queste strade brulicano di ricordi. Sdraiatevi su quei letti, inebriati da odori che solo potrete immaginare. Odiate Lilie quando lascerà un ragazzo che voi sognate d’ incontrare da una vita… Ma per favore lasciatevi trasportare, queste tre ore voleranno in un minuto, sarà come mangiare le immagini, sentirle entrare dentro di voi. E’ la grande magia del cinema, di questo cinema.

Les Amants Réguliers di Philippe Garrel - primo tempo


I piani di Garrel si gonfiano della poesia più pura, ogni suo piano è esplosione di poesia. Ci sono film che immortalano sequenza celebri, quadri destinati a rimanere nella memoria degli spettatori. Nei film di Garrel tutto è necessario, ma niente indispensabile: dimentichi un piano, una battuta, una sequenza ecco un altro piano, un’altra battuta, un’altra sequenza a riempire quel vuoto. Credo che Garrel non voglia lasciarci questo, credo che Garrel voglia lasciarci un ricordo, un sospiro, un senso.
La maggior parte degli spettatori ignora Garrel. Les Amants Réguliers ha avuto un compito che al cinema è tra i più importanti: far conoscere un autore al di là dei circuiti chiusi.
Garrel ha un pregio, che tanti altri non hanno: l’ hai trovato, nel vero senso della parola, non te l’ hanno presentato in mille svariati modi, sul piatto d’argento, come accade per altri registi o per altri film che conosci punto per punto senza neppure averli visti. L’averlo scoperto rende tutto più vero, quello che vedi lo vedi realmente per la prima volta, nessuno ti ha riempito la testa di preconcetti.
Per qualcuno che lo ama è stato anche un po’ un tradimento, mettere l’opera in bocca al grande pubblico. La fatica del cineasta, quel gusto che hanno i film consumati nel silenzio. Un pezzettino di ogni cuore è andato via con il biglietto venduto a chi non l’ ha saputo apprezzare. Puoi amare, puoi odiare ma il non saper apprezzare, l’indifferenza, resta il peggiore di ogni male.
Qui andrebbe una riflessione sul senso del cinema, dove stia il giusto mezzo. Se il cinema debba essere spettacolo per tutti o dividerlo in due categorie: quello del grande pubblico e quello degli appassionati, quello in stile fabbrica hollywoodiana contro quello che mette in piedi un capolavoro con i soldi che, in un’altra produzione, riuscirebbero a malapena a coprire le spese dell’analista di qualche grande divo o detto tale. Per quanto interessi la mia opinione a chi sta leggendo, ho sempre creduto in un cinema che potesse interessare al grande pubblico per una serie di motivi, ma che avesse insieme delle caratteristiche in grado di appagare anche gli appassionati. Ultimamente un’idea quasi del tutto utopistica. Ma se non si credesse nel pubblico, nel cinema inteso come spettacolo collettivo, i fratelli Lumière non avrebbero avuto ragione di esistere, staremmo ancora lì, isolati, a guardare i film piegati sul kinetoscopio di Edison.
I più l’ hanno visto solo come un film sul ‘68. Questo è un classico: un film è un capolavoro? Un film è un’immane schifezza? Ambienta un film nel ’68 e tutti, e dico tutti, saranno estasiati; nessuno vedrà il film, tutti vedranno il ’68. Te lo sorbirai ai falsi cineforum allestiti in puro stile porta a porta all’autogestione/occupazione del liceo, e se ne starà lì tranquillo insieme a Ovosodo e a I ragazzi dello zoo di Berlino (spero vivamente che qualcuno abbia frequentato un liceo migliore del mio!). Ennesimo sputtanamento, ferita aperta. Dopo essersi digeriti quasi tre ore di film, di cui probabilmente non hanno capito un’acca, si sprecheranno commenti del tipo beati loro, oh come avrei voluto vivere a quei tempi, quanto si divertivano (mentre fumavano oppio e si afflosciavano in una bella casa di un riccone parigino). Pazienza… ci è stato dato di sprecare la nostra giovinezza in questo nuovo millennio che sta andando a farsi benedire, non abbiamo ideali, il rock è morto, non c’ è più coscienza politica… puro qualunquismo, se tutto fa schifo sarà colpa anche nostra?! Magari se avessimo guardato quelle inquadrature geniali, dove Garrel invece di mettere una didascalia, riprende un numero civico 68 e poi 69 per farci capire di che anno sta parlando, o se ci fossimo persi in quell’inquadratura che immortala occhi colmi di commozione. Un primo piano di una lunghezza spaventosa, che si carica di emozione pura, che sarebbe potuto durare anche dieci minuti tanto diceva tutto senza aver bisogno di dire nulla. O la poesia di un violinista solitario in una strada vuota, che colma la sua follia o la sua immensa saggezza in quella capra che tiene legata. Inquadrature di un fascino infinito.Il Maggio Francese di Garrel si risolve in una sola sequenza, non c’è approfondimento; Garrel l’ ha filmato perché ha fatto parte della sua vita come della vita di altri: perché c’è, è esistito. Non ne fa il motivo del film, è la poesia della vita vissuta, non della vita inventata. Il realismo del sogno.


seconda parte

La Naissance de l' Amour di Philippe Garrel



L’amore che finisce, l’amore che inizia, l’amore che cambia e muta nel tempo: Paul (Lou Castel) e Marcus (Jean-Pierre Léaud) sono due amici che, non più giovani, si trovano a riscoprire questo sentimento. Paul è un attore di teatro sposato con Fanchon ma innamorato di un’altra donna, Ulrika e cerca di restare con la moglie solo per amore dei figli. Marcus è uno scrittore che invece ama Hélène che lo lascia e se ne va da Parigi.
Quelle delineate da Garrel sono storie di persone comuni, che, come spesso accade, ad un certo punto della vita debbono rimettere in discussione le certezze fino allora costruite, che si trovano a porsi nuovi quesiti ai quali devono trovare una risposta.
Gli attori perdono qualsiasi connotazione di “finzione” non sono belli, se per bello si intende quella concezione di bellezza come perfezione fisica a cui il cinema ci ha da sempre abituato: spesso struccati, spettinati poiché la bellezza in Garrel deve trovarsi nel soggettivo e non nell’ oggettivo ostinandosi a ricercare sempre ciò che traspare, da uno sguardo, da un’ espressione da un gesto e mai ciò che appare scontato.
Allo stesso modo anche i luoghi ci rimandano ad una normalità: palazzi, strade, gli ambienti dove si svolge l’ azione non ricalcano i topoi hollywoodiani ma sono consueti tanto da infastidire lo spettatore che non ritrova nella pellicola un ideale di perfezione ma un riflesso della realtà umana dove può identificarsi.
Una realtà che può essere anche splendida, tenera negli sguardi innamorati, nelle mani che si sfiorano come dimostrano le scene dolcissime in cui Paul è insieme alla figlia appena nata, quei gesti pacati, quelle mani pesanti che toccano un esserino così fragile ma anche dura come la vita stessa, dove si nasce e si muore come riassume la sequenza dove le grida di una bambina che viene al mondo sono contrapposte al silenzio raggelante della guerra e della morte.
Il realismo di Garrel non scende mai nella banalità, come spesso accade nei suoi film la cinepresa diventa un occhio soggettivo che indaga nel reale: fermandosi, spostandosi, scrutando intorno la macchina da presa di Garrel sembra avere un’anima, come un uomo che guardandosi attorno possa posare lo sguardo laddove è interessato. Abbandonando preconcetti stilistici ed escamotage narrativi guarda il reale attraverso una prospettiva che ne estrapola il lato artistico e poetico. Anche l’ utilizzo del tempo ha la sua naturalezza soggettiva, i piani spesso sembrano gonfiarsi all’inverosimile eccedere nella durata solo per mostrarci un particolare, ma anche questo fa parte della consuetudine dell’essere umano che si perde nel guardare sia che stia ammirando un mare in tempesta sia che stia fissando una banale tazzina di caffè.
La scelta di non usare il colore ma il bianco e nero non è un vezzo autoriale ma serve a spogliare del superfluo per poter accedere direttamente al senso del gesto, all’essenza dell’azione; un bianco e nero che nel contempo ovatta e attutisce i duri colpi della vita.
Come diceva Renoir la favola non va cercata al di fuori ma dentro la vita, perché è la vita stessa che già la contiene. Garrel sublimando la realtà, questa favola la trova con la spontaneità di un cineasta che al cinema ha dedicato l’esistenza, con passione e al di fuori delle luci della ribalta.
Philippe Garrel è la prova tangibile che tuttora il grande cinema esiste, lontano dalla ridondanza di certe pellicole che nascono e vivono soltanto di pubblicità, da film finti che spacciano per vita reale ciò che di più lontano dalla realtà non potrebbe essere.