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Visage di Tsai Ming-liang


Viviamo nel tempo dell’incontinenza verbale, così assuefatti dal subire continuamente delle voci che il silenzio non fa più parte della nostra quotidianità; eppure la suggestione non nasce soltanto dalla parola, anzi, più frequentemente è lo spettacolo del visibile a far risvegliare le emozioni più intime. Allo stesso modo la natura profonda del cinema non è quella della parola, la sua grammatica l’ associa ad un’arte primitiva e “silenziosa”, la pittura, con la quale condivide il suo tassello portante, il quadro, oggetto iconico bidimensionale al cui interno il regista, come il pittore, si esprime.

Gli Abbracci Spezzati di Pedro Almodóvar


Mateo è un regista che, colpito da un grave incidente, resta cieco e decide di cambiare la sua persona in quella di Harry. Accanto a sé in questa trasformazione rimangono la sua assistente di un tempo, Judit, e Diego, il figlio di lei. E’ in occasione di un incidente di quest’ultimo che Harry decide di narrare al ragazzo della sua storia, e, indirettamente di quella della madre, rimasta celata per tanti anni.
Strutturato come una prolessi che dura tutto il racconto di Harry, Gli abbracci spezzati non sorprende come novità, c’è nella pellicola un senso di familiarità che lo spettatore percepisce fin dall’inizio, prerogativa questa, che conferma la stabilità del tratto di Almodóvar, delle ossessioni e dei motivi di una personalità che viene costantemente riversata in pellicola; ritroviamo il tema dell’omosessualità, sempre toccato in modo leggiadro, il culto della bellezza femminile, l’amicizia disinteressata ed i rapporti interpersonali che si costituiscono in una sorta di famiglia allargata che esula dall’idea borghese e stabilisce relazioni tra gruppi di persone non necessariamente legati da conformismi.
Benché si tratti di una prolessi il regista procede per l’intera pellicola con un modus operandi di stampo prettamente classico, conferendo così all’opera una certa quiete espressiva che si smorza nella complessità nel soggetto che decide di sviluppare; in questo Almodóvar ricorda la lezione di Buñuel, dove la forma e il contenuto stonano tra di loro proprio per quel contrasto creato tra la semplicità dell’una e la complessità dell’altro. Il ritorno al classico, lo sguardo rivolto all’indietro è il fil rouge dell’intero film, anche dal punto di vista strettamente filmico, infatti, si ricorre spesso all’inutilizzo della profondità di campo.
La storia che Harry racconta è insieme uno svelarsi a Diego e a se stesso, in una sorta d’introspezione che lo farà ricongiungere con la sua vera identità ovvero quella di Mateo e del regista, la cecità non è un incidente a caso ma la causa che lo ha allontanato dal motivo della sua vita: l’immagine.
La pellicola segue i toni del Melò (altra caratteristica che avvicina Almodóvar a Buñuel), al suo centro vi è la storia dell’amore impossibile tra Mateo e Lena; ancora una volta il regista pone l’attenzione sulla donna, che insieme è diva, madre ed amante, il perno dal quale scaturisce tutta l’azione; l’omaggio alla figura femminile non passa, come in Volver, attraverso le donne comuni, sanguigne, capaci di sbrogliarsi dalle situazioni più dure grazie ad una forza d’animo invidiabile, ma nella figura dell’attrice e della diva da Audrey a Marilyn in modo da riuscire a dimostrare come la donna, che sia una puttana o un’attrice di fama mondiale, non abbandona le sue prerogative.
Gli abbracci spezzati non raggiunge ovviamente i toni di Tutto su mia madre, ma resta un’opera ben fatta, capace di stupire lo spettatore e malgrado qualche momento di ritmo languente, la struttura classica della pellicola con tanto di coup de theatre riesce a tendere ben desta l’attenzione del pubblico fino all’ultima scena.

Inglourious Basterds di Quentin Tarantino

Nel panorama odierno dove il cinema si muove su di una linea emotiva sempre più piatta, Tarantino riesce ancora ad entusiasmare: il regista sembra essere uno dei pochi ad avere ben salda in mano la ricetta del successo assicurato. Un successo non difficile da codificare se si pensa a quello che è stato il fil rouge del cinema come spettacolo, vale a dire lo stupore; e, infatti, anziché accumulare nella pellicola piani su piani Tarantino vi condensa lo spirito, ciò che accomuna Sergio Leone ai film di genere, gli spaghetti western al cinema d’autore, ovvero cercare di stupire lo spettatore grazie alla magia che ha in seno il cinema quando la miscela degli ingredienti (sceneggiatura, messa in scena, effetti, colonna sonora ecc. ecc.) è azzeccata.
La pellicola si muove tra due storie parallele ambientate nella Francia occupata dai nazisti che s’ intrecceranno, poi, nel comune finale. Da una parte quella di Shosanna Dreyfus (Mélanie Laurent), ebrea scampata allo sterminio della propria famiglia che eredita un cinema a Parigi e medita una vendetta contro i nazisti; dall’altra quella di Aldo Raine (Brad Pitt) tenente di una compagnia di soldati ebrei che si prefigge di sterminare tutti i soldati nazisti che incontra e di far loro lo scalpo, la squadra dei Bastardi (da qui il titolo del film) si troverà a collaborare poi con un’attrice tedesca, Bridget Von Hammersmark (Diane Kruger) con la quale sarà pianificato un attentato alle alte cariche del Terzo Reich.
Tarantino rimaneggia un pezzo di grande storia europea con la sapienza di chi scrive un film americano di genere utilizzando semplici stilemi ad effetto (nazisti come il male da combattere per ristabilire la giustizia, caratterizzazione stereotipica dei personaggi ) ma insieme, oltre alla parte metacinematografica -punto debole di ogni cinéphile, vi è lo spirito del cinema europeo, se vogliamo più idealista e dai margini più sfumati che ritroviamo nella storia d’amore tra due “emarginati” (l’ebrea e il francese di origini africana) che vive dentro le mura di un cinema e sconfigge l’ira nazista grazie alla passione delle idee.
Non bisogna ovviamente urlare al capolavoro, il film, piacevole nel complesso, non è scevro di pecche come la durata eccessiva e i dialoghi che se da un lato scoppiettano per il gioco linguistico creato tra francese, inglese e tedesco (che scema però nei sottotitoli italiani che traducono superficialmente) si dissipano poi in futili giochi di parola che alla lunga risultano ridondanti; e, se la trovata di un Brad Pitt attore siciliano “travestito” da Marlon Brando nei primi momenti è una vera chicca, non si capisce perché poi debba durare per tutto il finale anche una volta caduta la maschera del tenente, trasformando quello che poteva essere un simpatico escamotage cinefilo in un inutile scimmiottamento.
Tarantino è riuscito a metter su un buon film che nonostante la durata dilatata ltiene desta l’attenzione dello spettatore; altro merito è quello di aver fatto rivedere al cinema un film che non sia un mero surrogato televisivo e da ultima, ma perciò non meno importante, l’esser stato capace di trasmettere in toto al pubblico il grande amore che nutre per il cinema seppur attraverso un “film di Guerra” come Inglorious Basterds.