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The Help di Tate Taylor

Il tema del razzismo è ancora, e aggiungerei purtroppo, di grande attualità, e tuttora il pregiudizio verso le minoranze non è per nulla arginato. Non è scontato che un opera tratti una questione del genere senza cadere nella demagogia, ma The Help ci riesce magnificamente. La pellicola narra di un bellissimo esempio di alleanza e amicizia femminile, in un sud degli stati uniti ancora, nei primi anni sessanta, profondamente razzista.

Qui Skeeter, una bella ragazza bianca appena laureata, torna nella sua casa in Mississippi e scopre che la sua amata nanny, Costantine è scomparsa. Diversa dalle coetanee, Skeeter non sogna il matrimonio ma la libertà, disdegna il loro modo convenzionale di vivere la vita e non comprende il loro fanatismo razzista. Sono questi gli spunti che portano la ragazza a voler scrivere un libro molto particolare: una raccolta d’ interviste alle donne di servizio di colore che sono un perno fondamentale delle famiglie bianche, anche se queste non sembrano accorgersi della loro importanza. Queste donne si occupano della casa, crescono i bambini bianchi di quelle donne e quegli uomini che non le rispettano e pure li amano e li curano per poi scomparire dalle loro vite, sapendo che proprio quei bambini diventeranno i loro futuri aguzzini.
Aibileen sarà la prima donna nera a raccontare la propria esperienza a Skeeter, dando così l’impulso anche alle altre donne della sua comunità ad aprirsi a questa rossa sconosciuta. Aibileen è una donna fiera, dalle movenze regali e dallo spirito forte e mentre racconta le sue vicende a Skeeter, si sta occupando del suo diciassettesimo bebè. Il suo amore verso questa bambina è molto più puro e incondizionato di quello della madre, e la piccola sembra prescindere più da lei che dal proprio genitore. La scelta che fa Aibileen di raccontare la propria storia, è dovuta al fatto che la donna, dopo la morte del figlio, sente di non aver più nulla da perdere e, soprattutto vuol rivendicare il sogno del ragazzo, ovvero quello di vedere, un giorno, il suo paese libero dal razzismo.

Precious di Lee Daniels

Harlem 1987, Clareece “Precious” Jones ha sedici anni, è madre di una bambina ed è già incinta del secondo figlio; per tal motivo la ragazza -ancora alle scuole medie- è espulsa e mandata in una “scuola speciale”.
Considerate le premesse del soggetto Lee Daniels sarebbe potuto scadere facilmente nel patetismo a buon mercato e con ciò colpire al cuore il grande pubblico, ma così non è stato. La pellicola, acclamata a Cannes nella sezione Un Certain Regard e vincitrice di diversi premi al Sundance Film Festival, tiene incollato lo spettatore allo schermo proprio per il distacco con cui si racconta la storia. La scelta, ad esempio, di girare con i tempi e i modi del neorealismo contribuisce alla percezione di tale divario, soprattutto nelle riprese di molte scene difficili da digerire (come quella dell’incesto) che invece ci sono presentate in piano ravvicinato.
La pellicola si compone inoltre di due livelli, quello appena descritto del reale, e quello della vita interiore di Precious: nei momenti più difficili la ragazza “sogna” di essere una star, di vivere in un mondo appartenente in tutto e per tutto all’immaginario televisivo. L’evasione della protagonista manifesta la pochezza della realtà che conosce, neppure nella fuga è veramente libera: essa non è soltanto schiava di un corpo, di una famiglia e del quartiere-ghetto dove vive ma è anche imprigionata in categorie mentali limitate. Alla ragazza non è stata insegnata altra verità che non sia quella del suo quotidiano o quella che vede in televisione, colpevole a tal proposito è una società, quella statunitense, che Lee Daniels ci mostra piena di pesanti ed evidenti lacune. Precious non può avvalersi di nessun aiuto istituzionale: né la scuola, che la lascia arrivare a sedici anni semianalfabeta, né le assistenti sociali che hanno seguito il suo caso si sono dimostrate degne di una società civile. Per risollevare la testa, la giovane ha potuto contare solo su se stessa e su pochi che hanno saputo mostrare umanità nei suoi confronti.
L’opera mette lo spettatore in uno stato d’angoscia e di profonda impotenza probabilmente paragonabili ai sentimenti vissuti dalla nostra protagonista. Purtroppo in Italia la pellicola ancora aspetta di uscire, un peccato considerando che Precious è un film ben fatto che svela un mondo spesso abbozzato ma più di rado analizzato così a fondo.
originariamente pubblicato su Paper Street

Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg

Nel futuro prossimo le risorse scarseggeranno, gli oceani avranno sommerso gran parte delle città e sarà d’importanza vitale trovare un modo per diminuire i consumi. I robot fanno già parte da tempo della vita quotidiana, utile ed economico rimpiazzo per le più svariate attività. Un gruppo di scienziati sta mettendo a punto automi in grado di imitare gli esseri umani in tutto e per tutto, compreso il lato emozionale. Il tessuto sociale è quindi diviso in due parti: da un lato vi sono tali automi, detti mecha, e dall’altro gli umani.
Steven Spielberg riprende un progetto di Stanley Kubrick, morto prima che riuscisse a realizzarlo; per il regista americano Intelligenza Artificiale è il ritorno alla fantascienza, e sulle orme del compianto cineasta, Spielberg plasma un’opera che porta il suo segno distintivo, una felice via di mezzo tra realtà e fantasia.
Protagonista della pellicola è un mecha, bambino/robot adottato da una famiglia il cui unico figlio, Martin, è in coma. La decisione presa dal marito non convince Monica la quale fa fatica ad accettare un bambino che reputa fasullo, una sciocca imitazione del figlio; la donna pertanto decide di attivare al piccolo automa il lato emozionale: a questo punto David si accorge di essere una via di mezzo tra un robot e un bambino vero. Quando Martin si risveglia,però, iniziano a sorgere vari e prevedibili problemi, perché il ragazzino non accetta il fratello e fa di tutto per metterlo in cattiva luce di fronte ai genitori. Trovandosi di fronte ad una situazione insostenibile Monica si vede costretta ad abbandonare il figlio automa insieme a Teddy, orsetto robot. Solo in un bosco, David ricorda la storia di Pinocchio che la madre gli raccontava prima di dormire e, insieme a Teddy, parte alla ricerca della fata turchina.
Tutta la pellicola gioca nel parallelo con la favola del burattino di legno: vi ritroviamo le figure della fata turchina, il grillo parlante in forma di Teddy e Lucignolo nella figura di Joe. Tuttavia tra il significato della fiaba e quello del film le discrepanze sono evidenti. A differenza di Spielberg, lo scrittore toscano non descriveva il burattino con la stessa pietà con cui il regista descrive David, come un essere perfetto in contrasto con il mondo: Pinocchio non era accettato dalla società, ma anche lui, come quest’ultima non mancava di difetti. Nel romanzo, Collodi vuole e riesce a rappresentare una crescita parallela, ossia quella del burattino discolo che modificando il proprio carattere diventa un bambino buono e quella della società che, mano a mano, impara ad accettare il nuovo. David, invece, è presentato da subito come un bambino essenzialmente buono, privo di difetti, che la società degli “organi” (così sono chiamati gli umani dai robot) non vuole accettare.
In questo senso, la visione di Spielberg dimostra un evidente e atavico difetto del cinema americano, e una delle questioni morali che mai è riuscito a superare, relativa al manicheismo con cui esso spesso tratta il tema delle differenze sociali. La storia di David, e il modo in cui essa rappresenta il tema del rapporto tra diversi, è esemplare di quell’ incapacità a descrivere le differenze senza estremizzarle se non in rari casi –come può essere il cinema di Cassavetes – su cui Truffaut invitava a riflettere. Se riguardiamo, in una prospettiva storica, il modo in cui il cinema americano ha trattato questo argomento allora salta subito agli occhi l’esemplarità del tema del razzismo verso gli afroamericani. In un primo periodo, infatti, il cinema americano ha definito i “neri” come i cattivi per eccellenza (famoso il caso di Griffith) per poi, in epoca moderna, capovolgere totalmente questa visione sostenendo la bontà degli afroamericani in contrapposizione all’insensibilità bianca. Nell’opera di Spielberg si presenta il medesimo difetto, sostituendo il dittico neri/ bianchi con quello umani/robot.
Nella seconda parte del film, l’universo del visibile si amplia a tutto il mondo dei mecha e, sempre per seguire la fiaba di collodi, David/Pinocchio sta per entrare in un moderno Paese dei Balocchi. Attraverso l’incontro con Joe, programmato per essere un gigolò, il piccolo scopre un mondo umano, grottesco quanto pericoloso, che gli era stato, fino a quel momento, totalmente estraneo. Nelle notti di luna piena esiste una pattuglia che si aggira nei boschi al fine di catturare quanti più mecha abbandonati sia possibile. In nome dei “figli di Dio” gli automi vengono portati in una sorta di circo, dove sono derisi e infine uccisi da una folla festante. David è rinchiuso in una gabbia e portato al centro dell’arena per l’esecuzione, ma, proprio come nella fiaba, all’ultimo momento viene salvato poiché né totalmente bambino né totalmente robot. Qui nasce quella fuga ai confini del mondo, in cui Joe e David intrecciano profondamente la loro amicizia, che però terminerà nello scenario di una New York apocalittica perchè Joe, sebbene avesse tentato di lasciare il suo mondo festante, alla fine, proprio come Lucignolo, ne rimane per sempre schiavo.
Inizia quindi il terzo episodio della pellicola; la storia fa un salto temporale e David, essendo l’unico essere a metà tra umano e automa, si risveglia dopo duemila anni. Intorno a lui tutto è cambiato il mondo è governato per intero da robot e, tra questi, riesce finalmente a coronare il sogno d’incontrare la fata turchina. Il bambino riesce così a esaudire il suo desiderio più grande, tornare dalla madre per sentirsi dire una prima ed unica volta il tanto agognato “ti voglio bene”.
Quella tessuta da Spielberg è un’opera che vuole evidenziare il problema dell’accettazione della diversità; il regista utilizza l’impianto formale della favola al fine di creare un film per ogni fascia di pubblico. A livello stilistico il regista armonizza perfettamente il dualismo effetti speciali/ritratto dal vero: il ricorso a una scenografia da fantasy non offusca, infatti, il fondo di realismo che permea la pellicola. Come di consueto avviene nella produzione di Spielberg, il ricorso agli effetti speciali è un mezzo per costruire realisticamente il mondo dell’immaginario.
Spostando l’attenzione all’aspetto narrativo, si nota come la sceneggiatura non sia invece priva di evidenti lacune: pur sostenendo un buon ritmo, la pellicola non riesce ad arrivare al cuore della questione, vale a dire a dare una risposta al problema della mancanza d’integrazione tra mondi differenti. Purtroppo il film non ci arriva poiché manca una visione esaustiva di tutti i punti di vista dei personaggi, non solo quello del protagonista dunque, ma anche quelli dei due mondi che vi sono descritti: quello dei mecha e quello degli umani.
Esemplare, a questo proposito, la questione psicologica, completamente sorvolata, del rapporto tra individui; prendiamo l’esempio del piccolo Martin: il bambino, una volta risvegliatosi dal coma, si trova in casa David. Per Martin, David rappresenta l’intruso a prescindere, indipendentemente dal fatto che appartenga al mondo degli umani o dei mecha. D’altra parte anche David, che della storia è il personaggio buono, è delineato in modo forse troppo semplicistico; ad esempio perché se David ha un lato emotivo sviluppato, non comprende le difficoltà che può avere Martin nell’accettarlo?
Forse è proprio l’approccio individualistico alla storia che vede centralmente solo la figura del piccolo automa, a non permettere una visione circolare della situazione; in tal mondo la questione sembra vertere solo sull’accettazione forzata dell’altro senza mai esplorare la terra, probabilmente più ostica, dell’integrazione tra parti.
Nonostante fosse di complessa realizzazione, probabilmente Spielberg avrebbe dovuto almeno tentare tale strada. Intelligenza Artificiale è una pellicola datata 2001, appartenente quindi ad un’epoca, dove la disquisizione dell’ incontro tra mondi differenti è fatto quotidiano, da non liquidare semplicisticamente con il racconto di una vicenda personale. Così strutturato, il film lascia intendere che l’utopia di un’uguaglianza forzata e ricercata continuamente altro non porta che ad un riscatto di tipo individualistico e non, come si dovrebbe, collettivo (come dimostra il finale dove l’unico a beneficiare di siffatta situazione è David).
In tal modo Spielberg dimostra di guardare all’argomento come a una questione irrisolvibile, se non nell’immaginario personale; la pellicola lascia pertanto nello spettatore un senso d’impotenza. Davanti ad una questione già grande di per sé, si ha un ulteriore prova che il sogno di un’uguaglianza forzata è insensato, almeno fino a quando gli esseri umani capiranno che il bisogno principale non è l’omologazione ma la possibilità d’interagire tra diversi mondi mantenendo le proprie peculiarità come doni capaci di arricchire la mente e lo spirito dell’uomo.

Whatever Works di Woody Allen

Boris Yelnikoff ha al suo attivo una carriera come fisico di fama mondiale, un matrimonio fallito e un tentativo di suicidio; conduce a New York un’esistenza cinica e solitaria, intramezzata da qualche uscita con gli amici. Woody Allen ritorna così alla commedia psicanalitica e alla sua Manhattan con questo film che probabilmente finirà per diventare un cult della sua produzione.
Il regista questa volta sembra volersi mettere a diretto contatto con il suo pubblico grazie alla trovata di far parlare Boris (ma non gli altri protagonisti, che in realtà lo prendono per pazzo) con il suo pubblico.
La vita dell’uomo sarà dipanata dall’incontro con Melody, avvenente peperina scappata da un sud degli Stati Uniti ancora profondamente bigotto; la ragazzina tenterà il in ogni modo di farsi accettare da Boris e finirà per trascinarlo in uno strampalato matrimonio.
Proprio nel momento in cui tutto la vita tra i due sembrava allinearsi sulla via della conformità giunge a New York Marietta, madre di Melody, alla ricerca della figlia ormai scappata di casa da un anno.
Del tutto contraria al matrimonio con l’attempato Boris, sarà proprio Marietta ,cercando un ragazzo ideale per la figlia, a rappresentare il personaggio di svolta. La donna, nella caotica Manhattan, scoprirà la sua vera natura, trasformandosi da moglie fedele a fotografa dalla vita intima decisamente bohèmienne. Questo svelarsi per quello che è il proprio essere porterà anche gli altri personaggi, attraverso incontri più o meno fatali, a riscoprire la loro intrinseca natura.
Woody Allen non delude, come di consueto si ritrovano nell’opera tutte le figure che da sempre caratterizzano l’Io del regista e la sua produzione, nel caso specifico del film non li ritroviamo solo nel suo alter-ego Boris, ma in modi più o meno differenti, in ogni personaggio della pellicola.
La sceneggiatura si dimostra all’altezza dei migliori film: battute sagaci e ritmo scoppiettante tengono lo spettatore incollato allo schermo; allo stesso tempo la regia segue l’armonia della parola mescolando i tempi cinematografici a quelli teatrali.
Nel suo complesso la pellicola è scevra di sbavature, sia concettualmente che formalmente, e dall’inizio un po’ cinico si ritrova un finale decisamente delizioso che ricorda a tutti che non importa come e quando ma tutto tornerà a funzionare come deve.

Drugstore Cowboy di Gus Van Sant


Costruito come una lunga prolessi, Drugstore Cowboy mostra il modo in cui è possibile affrontare un tema complesso come quello della droga senza intercedere nella trama con punti di vista personali e quindi sempre opinabili. Grazie al narratore interno Gus Van Sant ovvia al problema contraddittorio del “punto di vista” relegando al diretto protagonista di quella che è una storia vera, il compito di narrare la sua esperienza.
Il regista diventa il pittore della storia, il suo dovere è di portare in immagini un’esperienza, senza lasciare opinioni morali e non, all’interno della sua opera.
Siamo nei primi anni ’70 e una piccola banda di drogati, costruita come un nucleo familiare a cui fa capo Bob (Matt Dillon) scorrazza saccheggiando farmacie nell’Oregon; un periodo dove la droga non è ancora percepita con un sentore di desolazione come sarà negli anni a venire, ma è ancora intesa come un elemento di ribellione. Il cammeo dello scrittore William Burroughs, vuole proprio simboleggiare nella sua persona tutta un’epoca e una “cultura” underground dove anche l’eroina (lo scrittore impersona un prete eroinomane) non è ancora vista come uno spettro di morte.
Pur trovandocisi storicamente, i personaggi del film tuttavia non fanno parte di questa sottocultura; la droga per loro non è un’evasione dalla società ma una vera e propria scelta di vita, come lo è avere un lavoro e una famiglia; l’atto si compie per il puro piacere di vivere un momento di euforia che inizia con la rapina e finisce con la somministrazione della sostanza: proprio come dei cowboy eroi dei western essi sono dei fuorilegge che non vediamo come tali poiché la loro scelta di vita è avvertita come naturale e non come qualcosa che si pone all’infuori dell’esistenza stessa.
L’opera, essendo concepita a partire da un’esperienza reale, segue - com’è naturale che sia- un lungo climax ascendente che parte dai primi momenti di euforia, attraversa lo squallore della morte anonima per poi approdare ad un’ovvia redenzione da quello che, nato come piacere, diventa un circolo vizioso dove i soggetti si tramutano in oggetti del loro stesso divertimento.
Gus Van Sant organizza una messa in scena di grande efficacia, soprattutto nella scelta delle inquadrature ravvicinate a personaggi ed azioni, rassomigliando ad un chirurgo che viviseziona un corpo (l’esperienza) per poterlo mostrare dal suo interno.
Siamo quindi al cinema inteso come “microscopio” sul reale, il cui unico compito è mostrare ciò che ad occhio nudo non può essere visto; l’alone di freddezza che avvolge la pellicola altra non è che un debito estraniarsi da una vicenda che non appartiene né al regista né allo spettatore ed è, a mio avviso, un segno d’intangibile rispetto in primo luogo verso una storia personale che, come è giusto, appartiene prima di tutto al diretto interessato, e perché no, anche nei confronti del cinema che Gus Van Sant dimostra d’intendere come arte che ha in seno il grande pregio di poter mostrare la realtà senza voler ad ogni costo interpretarla.