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Drugstore Cowboy di Gus Van Sant


Costruito come una lunga prolessi, Drugstore Cowboy mostra il modo in cui è possibile affrontare un tema complesso come quello della droga senza intercedere nella trama con punti di vista personali e quindi sempre opinabili. Grazie al narratore interno Gus Van Sant ovvia al problema contraddittorio del “punto di vista” relegando al diretto protagonista di quella che è una storia vera, il compito di narrare la sua esperienza.
Il regista diventa il pittore della storia, il suo dovere è di portare in immagini un’esperienza, senza lasciare opinioni morali e non, all’interno della sua opera.
Siamo nei primi anni ’70 e una piccola banda di drogati, costruita come un nucleo familiare a cui fa capo Bob (Matt Dillon) scorrazza saccheggiando farmacie nell’Oregon; un periodo dove la droga non è ancora percepita con un sentore di desolazione come sarà negli anni a venire, ma è ancora intesa come un elemento di ribellione. Il cammeo dello scrittore William Burroughs, vuole proprio simboleggiare nella sua persona tutta un’epoca e una “cultura” underground dove anche l’eroina (lo scrittore impersona un prete eroinomane) non è ancora vista come uno spettro di morte.
Pur trovandocisi storicamente, i personaggi del film tuttavia non fanno parte di questa sottocultura; la droga per loro non è un’evasione dalla società ma una vera e propria scelta di vita, come lo è avere un lavoro e una famiglia; l’atto si compie per il puro piacere di vivere un momento di euforia che inizia con la rapina e finisce con la somministrazione della sostanza: proprio come dei cowboy eroi dei western essi sono dei fuorilegge che non vediamo come tali poiché la loro scelta di vita è avvertita come naturale e non come qualcosa che si pone all’infuori dell’esistenza stessa.
L’opera, essendo concepita a partire da un’esperienza reale, segue - com’è naturale che sia- un lungo climax ascendente che parte dai primi momenti di euforia, attraversa lo squallore della morte anonima per poi approdare ad un’ovvia redenzione da quello che, nato come piacere, diventa un circolo vizioso dove i soggetti si tramutano in oggetti del loro stesso divertimento.
Gus Van Sant organizza una messa in scena di grande efficacia, soprattutto nella scelta delle inquadrature ravvicinate a personaggi ed azioni, rassomigliando ad un chirurgo che viviseziona un corpo (l’esperienza) per poterlo mostrare dal suo interno.
Siamo quindi al cinema inteso come “microscopio” sul reale, il cui unico compito è mostrare ciò che ad occhio nudo non può essere visto; l’alone di freddezza che avvolge la pellicola altra non è che un debito estraniarsi da una vicenda che non appartiene né al regista né allo spettatore ed è, a mio avviso, un segno d’intangibile rispetto in primo luogo verso una storia personale che, come è giusto, appartiene prima di tutto al diretto interessato, e perché no, anche nei confronti del cinema che Gus Van Sant dimostra d’intendere come arte che ha in seno il grande pregio di poter mostrare la realtà senza voler ad ogni costo interpretarla.