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" Fare un film significa migliorare la vita,
sistemarla a modo proprio, 
significa prolungare i giochi dell'infanzia"

François Truffaut

Les Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy



Si muore d’amore solo al cinema

Una cittadina piovosa mai baciata dal sole, due amanti ed una guerra pronta a dividerli: ci sono tutte le condizioni per qualificare la pellicola come un classico melò, se Jacques Demy, pur ricalcandone gli stilemi, non ne confutasse il senso in modo da dar vita ad una pellicola del tutto personale sia nelle tematiche che nello stile; suo esordio nella commedia musicale, Les Parapluies de Cherbourg segnerà la tradizione del musical europeo e in particolar modo di quello francese.
In una Cherbourg avvolta dalla nebbia ma colorata da tenui tinte pastello spiccano due amanti: Guy (Nino Castelnuovo) e Geneviève (Catherine Deneuve); i due giovani si amano alla follia tanto da volersi unire in matrimonio il prima possibile, anche contro il volere della madre di lei, ma Guy sarà costretto a partire per la Guerra d’Algeria e Geneviève scopertasi in stato interessante cederà alle lusinghe del ricco Roland.
La prima commedia musicale di Demy è un compendio di amore sventurato e musica: la pellicola copre un arco temporale di sei anni (1957-1962) ed è divisa, come in atti, in tre parti nelle quali si dispiega l’azione: “Le départ”, “l’absence”, “le retour”. Interamente cantato in ogni sua parte (non soltanto nei momenti salienti come di consueto accade per i musical) ma privo della parte coreografica Les Parapluies de Cherbourg non deve ingannare per la sua apparente aurea romantica: l’amore descritto da Demy affrontato senza il lirismo consueto e si sviluppa secondo le logiche dell’esistenza reale.

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La Carriera di Suzanne di Erich Rohmer

Bertrand è un giovane studente di medicina, un giorno, insieme all’amico Guillame incontra Suzanne; la ragazza lavoratrice di giorno e studentessa di sera, si dimostra subito aperta alla nuova amicizia e Guillame, più spigliato rispetto al compagno, la seduce subito. Una sera, però, Guillame inizia a sedurre Sophie, tra lo sguardo cupo di Suzanne e l’imbarazzo di Bertrand.
Bertrand disapprova ogni giorno di più il comportamento di Suzanne, per lui la ragazza non ha amor proprio e si dimostra troppo disponibile nei confronti di Guillame, che presto la scarica, e del resto dell’universo maschile. Pur continuando a disprezzarla Bertrand si ritrova sempre più spesso in sua compagnia e non esita ad approfittarne, anche economicamente; lui è tuttavia attratto da un’altra ragazza, Sophie. Tanto Suzanne è spigliata ed aperta, tanto Sophie è chiusa ed inarrivabile e, per Bertrand rappresenta una sorta di donna moralmente perfetta.
Datato 1963 e secondo dei Sei Racconti Morali, questo mendiometraggio di Rohmer sottolinea in appena 52 minuti la capacità del regista di raccontare storie servendosi dell’ambientazione per delineare la psicologia dei personaggi.
La maggior parte delle scene avviene in interni: dai café parigini, alle stanze in affitto fino ai night-club; questi ambienti vogliono rispecchiare in primo luogo la psicologia di Bertrand: come essi sono cupi e privi di luce così la mente del giovane non è illuminata dal sole della libertà e vive solo di rigidi stilemi morali. L’indignazione nei confronti di una ragazza spigliata, forse dai costumi un po’ libertini, qual’ è Suzanne conferma la chiusura mentale di Bertrand; egli non sopporta i suoi comportamenti, sembra pudico ma, allo stesso tempo, non disdegna la sua compagnia, le cene e le serate da lei pagate e gli appuntamenti a tre con Guillame. Bertrand continua per tutto il film a giudicare la ragazza come fosse esterno alla vicenda, confermando così un comportamento assolutamente borghese.

Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda

Cléo è una cantante, giovane bella e di successo. Conduce una vita mondana, possiede una grande casa al centro di Parigi ed ha un’amante; tutto sembra scorrere per il verso giusto, se non fosse che la donna aspetta il responso di un’analisi medica, risposta che non si annuncia come rosea.
Esordio di Agnès Varda nel lungometraggio, la pellicola altro non poteva essere che una storia di donna vista con gli occhi di un’altra donna; quello che a prima vista può apparire un soggetto semplice e, forse, più adatto ad un cinema da mélo, diventa nelle mani della regista –che non va mai dimenticato, giunge al cinema dopo una carriera come fotografa- un’indagine introspettiva che si compie attraverso il visibile.

La pellicola si apre con una cartomante che sta leggendo i tarocchi a Cléo; la donna ha capito quale sarà il futuro della giovane ma è ferma nella decisione di non riferirle assolutamente niente. La fotografia si trasforma repentinamente dal colore al bianco e nero e da questo momento in poi lo spettatore assisterà alla metamorfosi di Cléo.
La prima reazione della giovane è quella di comportarsi come se nulla stesse accadendo, rifugiandosi in un’irrealtà che da sempre caratterizza la sua esistenza: gira per negozi provando cappellini e ritorna in una casa che anch’ essa rappresenta una nicchia irreale, la camera piena di veli e pizzi, l’altalena e i gattini con cui giocare; come appartenenti ad un mondo che nulla ha da spartire con la quotidianità è la visita dell’amante e degli amici che altro non fanno che confermare una situazione dove Cléo non può leggere dentro sé stessa.
Per affrontare il problema Cléo deve tornare Florence, togliere la parrucca bionda e accettarsi come donna vera. Esce di casa ed inizia a passeggiare per Montparnasse; immediatamente il quartiere le appare diverso, le persone non le chiedono l’autografo entra in un bar affollato dove un disco suona la sua canzone che, però, non provoca effetti nella gente. Il mondo le appare finalmente per quello che è, fatto di bene e di male, ma comunque sia di cose tangibili. Come l’incontro con l’amica modella, che non si vergogna di apparire nuda davanti agli artisti che la ritraggono, la quale le fa comprendere come non ci sia vergogna nel mostrare se stessi, di quanto sia meglio apparire nudi per ciò che siamo che nascondersi dietro una parrucca.
E’ il primo giorno d’estate è Florence è in un parco, un parco non lontano da casa sua ma che non aveva mai visto, la vediamo riprendere il contatto con un’altra parte della realtà: la natura. Mentre passeggia il destino mette sulla sua strada un uomo, che, come lei, non ha più tempo. E’ Antoine, in licenza dalla Guerra d’Algeria, per la quale ripartirà tra poco tempo; anche lui come Florence sa che domani non potrebbe più essere qua, in questa realtà che Cléo rifuggiva e che, adesso, Florence accetta.
Prerogativa della pellicola è quella d’immergersi pienamente nella veridicità del reale; come preannuncia il titolo –Cléo dalle 5 alle 7- la Varda fa coincidere il tempo vissuto da Cléo prima del responso del medico (in realtà un’ora e mezzo e non due ore come da titolo, poiché la diagnosi è anticipata grazie all’incontro con Antoine che le fa comprendere come non si debba aspettare quando si rischia di non avere più tempo) con quello che lo spettatore impiega a vedere il film.
La storia è mescolata al reale facendo sì che il percorso di Cléo verso il raggiungimento dell’autocoscienza non avvenga in una riflessione solitaria ma attraverso un continuo confronto con il mondo; la macchina da presa si muove nelle strade in soggettiva e in tempo reale, portando così allo stremo lo stilema proprio della Nouvelle Vague di voler captare la veridicità del momento attraverso la ripresa en plein air.
Cléo de 5 à 7 è un film molto interessante che indaga nell’animo di una donna in connessione con gli agenti esterni e un visibile sempre mutabile; servendosi del cinema come mezzo dualistico che allo stesso tempo è essere occhio sul reale (come lo è una foto) e sull’irreale (grazie alla possibilità di mettere insieme una storia non vera come invece lo fosse), e, insieme, rappresenta un’interessante riflessione sul senso del tempo, di come quello cinematografico possa coincidere, volendo, con quello reale.

Baisers Volés di François Truffaut


Con la terza pellicola incentrata sulla figura di Antoine Doinel, Truffaut svela definitivamente la sua intensione di voler portare nel cinema un ciclo che si avvicini alla tradizione letteraria francese della Commedia umana di Balzac e dei Rougon-Macquart di Zola.
Dopo lo straordinario esordio con Les 400 coups e il simpatico episodio di Antoine et Colette contenuto nella pellicola collettiva L’ Amour à vingt ans, ritroviamo il nostro di ritorno dal servizio militare.
Quello di Antoine in Baisers Volés è un debutto nella vita, terminata l’adolescenza è il momento di prendersi la responsabilità e di diventare uomo sia nel lavoro che nella vita sentimentale. Doinel si dimostra però come quello che si era percepito fin dai primi due episodi: la sua vita non può seguire la regolarità degli altri esseri umani perché per quanto egli tenti di costruirsi un mondo ordinario si ritrova sempre in situazioni straordinarie. Le circostanze, però, non lo trasformano nell’eroe cinematografico ma altro non fanno che confermare la sua provvisorietà, il suo essere un anti-eroe; Doinel è condannato ad essere un precario dell’esistenza: se Truffaut amava affermare che il cinema lo affascinava tanto poiché in esso si riscoprivano i motivi di assoluto ai quali si può mirare solo nell’infanzia, con il personaggio di Doinel egli mette in scena la relatività della vita che si allontana dall’universo cinematografico dove “tutto è per sempre”. Ovviamente molto del merito va al protagonista, Jean - Pierre Léaud, al quale il regista lasciò tutta la libertà d’azione richiesta: l’attore con la sua recitazione manierata fatta di tic, scatti, d’inconfondibili nevrosi conferì a Doinel una goffaggine mista a stralunatezza che lo rende a tutt’ oggi uno dei personaggi più “umani” della storia del cinema.
L’intera pellicola è curata, come era solito fare Truffaut, fin nei minimi particolari: dalla sceneggiatura scoppiettante ricca degli inconfondibili motivi del suo cinema, all’attenzione per i personaggi secondari di modo che l’opera acquisti la forza di una rappresentazione corale di uno scorcio di vita sul finire degli anni ’60. A questo proposito il regista fu accusato più volte di omettere la componente politica che segnava il periodo (siamo nel ’68, agli albori del maggio francese); in realtà il cineasta si divise animosamente tra le riprese del film e la campagna a favore di Henri Langlois che nel periodo era stato dimesso dalle sue mansioni alla Cinémathèque Française; nel suo essere scevra di riferimenti politici, la pellicola resta, se così si può dire, un film “impegnato” non solo nel chiaro incipit che immortala la Cinémathèque sbarrata con in sovraimpressione la dedica a Langlois ma nel fatto che lo stesso Truffaut dichiarò più volte che la pellicola era strettamente legata a questi fatti.
L’opera segue perciò uno spirito paragonabile ai film di Renoir, non solo nel finire per essere politico senza pretenderlo ma anche nello spirito di straordinaria fiducia nell’uomo che permea tutta la pellicola; non a caso il personaggio di Fabienne Tabard (Delphine Seyrig) ricordando le parole del padre sul letto di morte dirà: “Les gens sont fantastique”. Questo personaggio oltre ad essere “alla Renoir” incarna alla perfezione l’amore secondo Truffaut e la duplicità dei suoi personaggi: Fabienne si palesa in un primo momento come la donna angelica, la diva da cinema verso la quale il povero Doinel si dimostra goffo e intimorito per poi svelarsi come donna terrena, la puttana e l’amante che come nulla fosse s’ intrufola tra le lenzuola di un attonito Antoine.
Baisers Volés è un film leggero e nostalgico come vuole dimostrare la canzone di Trenet alla quale il titolo s’ ispira. Un film che ci riporta indietro ad un’epoca storicamente influente ma che non è stata vissuta soltanto sulle barricate; ed un’opera che ricorda come la vita, anche se precaria e relativa, nei suoi molteplici e straordinari intoppi è più vicina al cinema di quanto si creda.