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Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda

Cléo è una cantante, giovane bella e di successo. Conduce una vita mondana, possiede una grande casa al centro di Parigi ed ha un’amante; tutto sembra scorrere per il verso giusto, se non fosse che la donna aspetta il responso di un’analisi medica, risposta che non si annuncia come rosea.
Esordio di Agnès Varda nel lungometraggio, la pellicola altro non poteva essere che una storia di donna vista con gli occhi di un’altra donna; quello che a prima vista può apparire un soggetto semplice e, forse, più adatto ad un cinema da mélo, diventa nelle mani della regista –che non va mai dimenticato, giunge al cinema dopo una carriera come fotografa- un’indagine introspettiva che si compie attraverso il visibile.

La pellicola si apre con una cartomante che sta leggendo i tarocchi a Cléo; la donna ha capito quale sarà il futuro della giovane ma è ferma nella decisione di non riferirle assolutamente niente. La fotografia si trasforma repentinamente dal colore al bianco e nero e da questo momento in poi lo spettatore assisterà alla metamorfosi di Cléo.
La prima reazione della giovane è quella di comportarsi come se nulla stesse accadendo, rifugiandosi in un’irrealtà che da sempre caratterizza la sua esistenza: gira per negozi provando cappellini e ritorna in una casa che anch’ essa rappresenta una nicchia irreale, la camera piena di veli e pizzi, l’altalena e i gattini con cui giocare; come appartenenti ad un mondo che nulla ha da spartire con la quotidianità è la visita dell’amante e degli amici che altro non fanno che confermare una situazione dove Cléo non può leggere dentro sé stessa.
Per affrontare il problema Cléo deve tornare Florence, togliere la parrucca bionda e accettarsi come donna vera. Esce di casa ed inizia a passeggiare per Montparnasse; immediatamente il quartiere le appare diverso, le persone non le chiedono l’autografo entra in un bar affollato dove un disco suona la sua canzone che, però, non provoca effetti nella gente. Il mondo le appare finalmente per quello che è, fatto di bene e di male, ma comunque sia di cose tangibili. Come l’incontro con l’amica modella, che non si vergogna di apparire nuda davanti agli artisti che la ritraggono, la quale le fa comprendere come non ci sia vergogna nel mostrare se stessi, di quanto sia meglio apparire nudi per ciò che siamo che nascondersi dietro una parrucca.
E’ il primo giorno d’estate è Florence è in un parco, un parco non lontano da casa sua ma che non aveva mai visto, la vediamo riprendere il contatto con un’altra parte della realtà: la natura. Mentre passeggia il destino mette sulla sua strada un uomo, che, come lei, non ha più tempo. E’ Antoine, in licenza dalla Guerra d’Algeria, per la quale ripartirà tra poco tempo; anche lui come Florence sa che domani non potrebbe più essere qua, in questa realtà che Cléo rifuggiva e che, adesso, Florence accetta.
Prerogativa della pellicola è quella d’immergersi pienamente nella veridicità del reale; come preannuncia il titolo –Cléo dalle 5 alle 7- la Varda fa coincidere il tempo vissuto da Cléo prima del responso del medico (in realtà un’ora e mezzo e non due ore come da titolo, poiché la diagnosi è anticipata grazie all’incontro con Antoine che le fa comprendere come non si debba aspettare quando si rischia di non avere più tempo) con quello che lo spettatore impiega a vedere il film.
La storia è mescolata al reale facendo sì che il percorso di Cléo verso il raggiungimento dell’autocoscienza non avvenga in una riflessione solitaria ma attraverso un continuo confronto con il mondo; la macchina da presa si muove nelle strade in soggettiva e in tempo reale, portando così allo stremo lo stilema proprio della Nouvelle Vague di voler captare la veridicità del momento attraverso la ripresa en plein air.
Cléo de 5 à 7 è un film molto interessante che indaga nell’animo di una donna in connessione con gli agenti esterni e un visibile sempre mutabile; servendosi del cinema come mezzo dualistico che allo stesso tempo è essere occhio sul reale (come lo è una foto) e sull’irreale (grazie alla possibilità di mettere insieme una storia non vera come invece lo fosse), e, insieme, rappresenta un’interessante riflessione sul senso del tempo, di come quello cinematografico possa coincidere, volendo, con quello reale.

Chéri di Stephen Frears

Siamo nella Parigi di inizio ‘900 e le cortigiane fanno parte dei costumi del bel mondo come l’arte e la filosofia. Tra queste vi è Léa, un tempo bellissima e potente prostituta, che non più giovane, è soffocata dall’idea di invecchiare e quindi perdere il suo ascendente sugli uomini. L’occasione di riprendersi sé stessa le è presentata da Madame Peloux, sua ex-collega, che le affida il giovane figlio Chéri, per distoglierlo da una vita fatta di eccessi; i due, sotto il beneplacito di Madame Peloux, diventeranno amanti.
Pur essendo passato quasi in sordina, Chéri, è un’opera ben fatta soprattutto considerando le varie problematiche dell’adattamento letterario: trasferire sullo schermo un racconto noto al grande pubblico, qual è l’opera di Colette, è sempre difficoltoso per regista e sceneggiatore, che si trovano a dover rimaneggiare ciò che gli spettatori già conoscono.
Seguendo letteralmente il libro di Colette, Frears ci riesce, ricreando perfettamente gli ambienti dell’epoca attraverso una scenografia ripresa nei minimi dettagli dal libro di Colette, così come riportati con saggezza sono i dialoghi e soprattutto lo spirito di una Parigi ormai schiava dei suoi eccessi. L’epoca di “decadenza” è ripresa nel suo duplice significato: da un lato quello aureo del costume e dall’altro quello nero del senso di fini verso cui tutto quel mondo è oramai proiettato.
Chiusesi le porte, nelle stanze cupe si riscopre una Léa attanagliata dal terrore di non essere più attraente e di perdere il potere che, essendo una prostituta d’alto livello, ha da sempre esercitato nelle classi più elevate. Allo stesso modo Chéri, che in questo mondo ovattato vi è nato e cresciuto, è sconvolto dall’idea di scontrarsi con il reale.
In questo senso entrambi diventano pedine di un gioco destinato ad una fine, poiché l’uno trova la volontà di esistere solo nell’altro. Quando Chéri, infatti, sarà strappato da Léa e dalla sicurezza della madre e dell’amante, finirà per perire, come un ennesimo Dorian Gray, della propria bellezza.

Baisers Volés di François Truffaut


Con la terza pellicola incentrata sulla figura di Antoine Doinel, Truffaut svela definitivamente la sua intensione di voler portare nel cinema un ciclo che si avvicini alla tradizione letteraria francese della Commedia umana di Balzac e dei Rougon-Macquart di Zola.
Dopo lo straordinario esordio con Les 400 coups e il simpatico episodio di Antoine et Colette contenuto nella pellicola collettiva L’ Amour à vingt ans, ritroviamo il nostro di ritorno dal servizio militare.
Quello di Antoine in Baisers Volés è un debutto nella vita, terminata l’adolescenza è il momento di prendersi la responsabilità e di diventare uomo sia nel lavoro che nella vita sentimentale. Doinel si dimostra però come quello che si era percepito fin dai primi due episodi: la sua vita non può seguire la regolarità degli altri esseri umani perché per quanto egli tenti di costruirsi un mondo ordinario si ritrova sempre in situazioni straordinarie. Le circostanze, però, non lo trasformano nell’eroe cinematografico ma altro non fanno che confermare la sua provvisorietà, il suo essere un anti-eroe; Doinel è condannato ad essere un precario dell’esistenza: se Truffaut amava affermare che il cinema lo affascinava tanto poiché in esso si riscoprivano i motivi di assoluto ai quali si può mirare solo nell’infanzia, con il personaggio di Doinel egli mette in scena la relatività della vita che si allontana dall’universo cinematografico dove “tutto è per sempre”. Ovviamente molto del merito va al protagonista, Jean - Pierre Léaud, al quale il regista lasciò tutta la libertà d’azione richiesta: l’attore con la sua recitazione manierata fatta di tic, scatti, d’inconfondibili nevrosi conferì a Doinel una goffaggine mista a stralunatezza che lo rende a tutt’ oggi uno dei personaggi più “umani” della storia del cinema.
L’intera pellicola è curata, come era solito fare Truffaut, fin nei minimi particolari: dalla sceneggiatura scoppiettante ricca degli inconfondibili motivi del suo cinema, all’attenzione per i personaggi secondari di modo che l’opera acquisti la forza di una rappresentazione corale di uno scorcio di vita sul finire degli anni ’60. A questo proposito il regista fu accusato più volte di omettere la componente politica che segnava il periodo (siamo nel ’68, agli albori del maggio francese); in realtà il cineasta si divise animosamente tra le riprese del film e la campagna a favore di Henri Langlois che nel periodo era stato dimesso dalle sue mansioni alla Cinémathèque Française; nel suo essere scevra di riferimenti politici, la pellicola resta, se così si può dire, un film “impegnato” non solo nel chiaro incipit che immortala la Cinémathèque sbarrata con in sovraimpressione la dedica a Langlois ma nel fatto che lo stesso Truffaut dichiarò più volte che la pellicola era strettamente legata a questi fatti.
L’opera segue perciò uno spirito paragonabile ai film di Renoir, non solo nel finire per essere politico senza pretenderlo ma anche nello spirito di straordinaria fiducia nell’uomo che permea tutta la pellicola; non a caso il personaggio di Fabienne Tabard (Delphine Seyrig) ricordando le parole del padre sul letto di morte dirà: “Les gens sont fantastique”. Questo personaggio oltre ad essere “alla Renoir” incarna alla perfezione l’amore secondo Truffaut e la duplicità dei suoi personaggi: Fabienne si palesa in un primo momento come la donna angelica, la diva da cinema verso la quale il povero Doinel si dimostra goffo e intimorito per poi svelarsi come donna terrena, la puttana e l’amante che come nulla fosse s’ intrufola tra le lenzuola di un attonito Antoine.
Baisers Volés è un film leggero e nostalgico come vuole dimostrare la canzone di Trenet alla quale il titolo s’ ispira. Un film che ci riporta indietro ad un’epoca storicamente influente ma che non è stata vissuta soltanto sulle barricate; ed un’opera che ricorda come la vita, anche se precaria e relativa, nei suoi molteplici e straordinari intoppi è più vicina al cinema di quanto si creda.