Gli Amori Folli di Alain Resnais

La natura è un meccanismo meraviglioso, capace anche di far crescere inesorabilmente un’erbetta dall’apparenza fragile ma in realtà abbastanza forte da poter squarciare di netto il pesante asfalto. Giusto un’immagine questa che appare nei titoli di testa ma monito di un cinema che è ancora così forte da poter spaccare il pesante appiattimento della nostra epoca, e a dircelo non è, purtroppo o per fortuna, un giovane regista, ma un vecchio cineasta che ha vissuto l’intera storia del cinema da protagonista e che ancora adesso, alla soglia dei novant’anni, ci dice che il cinema è sempre vivo, e se un motivo c’è, è che esso può ancora stupire.
La padrona assoluta de Les Herbes Folles è l’immagine, dopo un breve tentativo di delineare una storia, infatti, Resnais ci fa perdere in un labirinto privo di un tessuto narrativo e costituito solo di figure, lasciando allo spettatore l’onere e l’onore di dover ricostruire una trama, poiché la pellicola non ha di per sé una logica prestabilita ma ha il senso che lo spettatore gli dà.



Non appena la pellicola abbozza una direzione, infatti, il cineasta inserisce personaggi secondari, figure che transitano nella pellicola, vicende raccontate a metà e passati appena accennati; come il trascorso di Georges, cinquantenne che per caso trova un portafoglio rosso che è di Marguerite, dentista di professione e aviatrice per passione. A Georges basta soltanto una foto, quella che vede sulla carta di identità della donna, ma quanto può dire una fotografia? Quante storie racconta un’immagine?
Soltanto un cineasta navigato come Resnais poteva basare una pellicola su una fototessera, ma questo particolare ci spinge a comprendere quanto sia ancora del tutto necessario ribadire che alla base del cinema vi è solamente l’immagine. Essa è in grado di tramutarsi in un essere vivente, di avere un presente e un passato, non quello che ha ma quello che noi gli diamo; tanto è vero che Georges senza neppure conoscere Marguerite inizia a scriverle lettere e a raccontarle della propria vita. Come nella vita però, i sentimenti vanno e vengono, senza struttura, senza preavviso e allora da un giorno all’altro si invertono i ruoli: Georges diventa il chiodo fisso di Marguerite, è lei che lo cerca e finalmente lo trova.
Les Herbes Folles è un film straordinario, di forte impatto visivo, che ancora una volta ribadisce l’importanza che ha per Resnais il non detto, il senso che lo spettatore da al film più di ciò che sta nella testa dei personaggi, di quello che fanno o che dicono, confermando come il mondo sia governato primariamente da immagini che sta all’uomo mettere in ordine e costruire una storia dietro il visibile. Resnais sembra dirci che di assoluto esiste solo l’immagine mentre ciò che si pensa o si fa si sviluppa sempre in relazione al significato che l’uomo gli dà, non c’è niente di stabilito, può esserci una fine come possono essercene due e può darsi anche che un giorno, quando saremo gatti, mangeremo croccantini…
pubblicato anche su Paper Street

11 commenti:

Anonimo ha detto...

devo assolutamente vederlo, ma non so dove :(

èlle ha detto...

"la pellicola non ha di per sé una logica prestabilita ma ha il senso che lo spettatore gli dà."

il confine con l'essere dei gran paraculi noiosi è sottile, l'immagine fine a se stessa diventa documentario o videoarte. Credo.

monia ha detto...

#j.doinel: mi sà che l'hai già visto...^_^

#èlle: paraculo è chi filma un cazzo di plastica e pretende che sia arte, senza avere dietro una preparazione artistico/culturale adeguata. quest'uomo si chiama alain resnais e questo è il suo cinema, che non nasce dal caso ma da una ricerca letteraria ben salda, in più, dato che bisognerebbe informarsi prima di giudicare, la videoarte nasce da una costola del cinema indipendente e molta parte di questa prende spunto da autori come resnais, rivette e godard. la videoarte è soltanto usare un mezzo diverso, vale a dire una videocamera anzichè una macchina da presa, per poter avere un occhio più veloce su ciò che si filma; i signori che ho appena citato hanno spesso ribadito che se quando hanno incominciato loro a fare cinema avessero avuto la super8 probabilmente avrebbero usato anzi quella che la mdp. per quanto riguarda il documentario è tutta un'altra storia...secondo te s'interpreta un documentario?!?!?!? un documentario come dice la parola stessa è nato per documentare su un determinato fatto, e non va assolutamente interpretato è ciò che è.

èlle ha detto...

Mah, era una cosa scherzosa, comunque, per divertirsi, che polemica sia. La ricerca letteraria e la preparazione artistico culturale sono solo mezzi (quelli sì) che ognuno può guadagnare. La videoarte non è affatto "una videocamera al posto di una macchina da presa" (tant'è che la videoarte attuale fa largo uso di HD) è l'esatto opposto, infatti il MEZZO è lo stesso, ma il fine ed il percorso per raggiungerlo (l'approccio concettuale) sono diversi. Un documentario DOCUMENTA tramite immagini che il singolo individuo inevitabilmente interpreta e valuta secondo le proprie idee-esprerienze-ecc...
Quindi, secondo me, il giocare con gli specchi, se non si è bravi, porta all'autoerotismo.

monia ha detto...

e da queste parti l'autoerotismo ci piace, e di parecchio!!!

èlle ha detto...

Piacciono molto anche le opinioni altrui, da queste parti.

Anonimo ha detto...

Il documentario non è interpretabile in sè, se è divulgativo. Dipende dal documentario comunque. Poi non ho capito come si fa ad accostare il piacere per le opinioni altrui e quello di provocare polemiche. :S

Comunque il film l'ho visto e Monia mi trovi d'accordo, è un film vitale come la linfa dell'erbetta ribelle, a tratti delicato a tratti crudelmente paradossale, gli attori sono eccezionali! Che fascino Sabine Azéma!

èlle ha detto...

Già, l'erbetta vitale.

doinel ferrand ha detto...

'Un documentario DOCUMENTA tramite immagini che il singolo individuo inevitabilmente interpreta e valuta secondo le proprie idee-esprerienze-ecc...'


Non sono propriamente d'accordo. Altman andava sul posto, si rimaneva 3 mesi ed una volta adattatosi cominciava semplicemente a girare, in modo che fosse naturale la sua presenza nel contesto (mi riferisco ad esempio alla serie sullo stato sociale americano degli anni'70). Allo stesso modo Vittorio De Seta, una volta inseritosi nel contesto (ad esempio la Calabria dei 'pescherecci') con la sua mdp catturava le immagini in modo naturale e spontaneo. L'unica differenza con la realtà è che qualsiasi immagine ripresa, anche documentaristica, è sempre impressa su una pellicola e quindi è una 'copia' dell'originale, ma in questo caso parliamo di ontologia dell'immagine ed è un altro discorso (che il buon Bazin ci ha chiaramente illustrato). Il film di Resnais non l'ho ancora visto ma procederò il prima possibile...

Anonimo ha detto...

e vitaminica.

èlle ha detto...

Quindi, a quanto scritto, sei d'accordo.

Lo spettatore può interpretare qualsiasi cosa, se ma ci sono diversi livelli di interpretazione, conscia ed inconscia. OGNI cosa viene interpretata soggettivamente, nel caso specifico dei documentari il regista può spingere verso un'interpretazione, ma non potrà mai determinarne una univoca. Neanche in un documentario sui leoni della savana.