L' Ora di Religione di Marco Bellocchio

Tra surrealismo e spirito sessantottino Marco Bellocchio tesse la trama di una vicenda particolare, quella della canonizzazione di una santa appartenente ad una famiglia dell’alta borghesia romana, per arrivare a delineare il ritratto di una società moderna in fase di totale decadenza.
Protagonista della pellicola è Ernesto, uno dei figli della probabile santa e unico membro della famiglia contrario a quella che ritiene in tutto e per tutto un’assurda messa in scena: i parenti della defunta vogliono convincere la Sede che la donna è morta per mano di suo figlio Egidio mentre lo pregava di non bestemmiare, e non pugnalata nel sonno come in realtà è accaduto. Unico scopo dei Picciafuoco è, infatti, ritrovare prestigio nella società dopo che la famiglia, un tempo elemento di spicco della buona società capitolina, è decaduta.
La pellicola racconta di due crisi, quella privata di Ernesto e quella della società moderna post-sessantottesca filtrata attraverso la figura dei Picciafuoco. Ancora una volta ritroviamo una serie di tematiche care al regista: l’omertà della borghesia, la viltà del Cattolicesimo e la malattia mentale. Impossibile è non ritornare con la mente a I pugni in tasca, opera di esordio di Bellocchio, dalla quale riprende il ritratto della famiglia borghese dove la componente di follia sembra essere inevitabile. In questo caso la “pazzia” è presentata in duplice veste: da una parte quella reale di Egidio e Fabrizio, e, dall’altra quella degli altri personaggi, caratterizzati da una follia distruttrice che ormai è entrata nell’ordinario e divenuta regolarità.
Dalla situazione la crisi di Ernesto, che prima riguardava la sfera privata come la separazione dalla moglie e le difficoltà di spiegare al figlio l’esistenza di Dio, si fa ancora più profonda: essa è di origini morale, l’uomo non riesce a far parte della propria famiglia a causa dell’ipocrisia che da sempre la contraddistingue; quello che della storia è il personaggio che rappresenta l’ateismo, eticamente parlando finisce per essere contraddistinto da uno spirito molto più “cristiano” rispetto a coloro che canonicamente dovrebbero rappresentare questo sentimento, vale a dire la Chiesa.
La pellicola è inequivocabilmente ben realizzata nella sua complessa fattura, molti sono i richiami alla poetica di Buñuel, anche se il passo tra il surrealismo e il ridicolo è spesso breve ed alcune scene finiscono per risultare abbastanza goffe come quella del duello, dove sia Castellitto che l’intera situazione risulta poco credibile anche se letta in chiave strettamente surrealista. Interessante rimane la riflessione sulla condizione di una borghesia e di una Chiesa che si rivelano ancora come le colonne portanti della nostra società. Se i pugni in tasca era un grido alla rivoluzione e con la sua portata distruttiva incitava alla ribellione e al distanziamento dei figli dalla famiglia, l’ora di religione sembra rappresentare il triste fallimento di tali ideali. I protagonisti che si erano scissi dalla famiglia si ritrovano ora ad esserne imprigionati, complici d’inganni, rotelle di un meccanismo borghese/cattolico che sembra destinato a durare per sempre.

Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg

Nel futuro prossimo le risorse scarseggeranno, gli oceani avranno sommerso gran parte delle città e sarà d’importanza vitale trovare un modo per diminuire i consumi. I robot fanno già parte da tempo della vita quotidiana, utile ed economico rimpiazzo per le più svariate attività. Un gruppo di scienziati sta mettendo a punto automi in grado di imitare gli esseri umani in tutto e per tutto, compreso il lato emozionale. Il tessuto sociale è quindi diviso in due parti: da un lato vi sono tali automi, detti mecha, e dall’altro gli umani.
Steven Spielberg riprende un progetto di Stanley Kubrick, morto prima che riuscisse a realizzarlo; per il regista americano Intelligenza Artificiale è il ritorno alla fantascienza, e sulle orme del compianto cineasta, Spielberg plasma un’opera che porta il suo segno distintivo, una felice via di mezzo tra realtà e fantasia.
Protagonista della pellicola è un mecha, bambino/robot adottato da una famiglia il cui unico figlio, Martin, è in coma. La decisione presa dal marito non convince Monica la quale fa fatica ad accettare un bambino che reputa fasullo, una sciocca imitazione del figlio; la donna pertanto decide di attivare al piccolo automa il lato emozionale: a questo punto David si accorge di essere una via di mezzo tra un robot e un bambino vero. Quando Martin si risveglia,però, iniziano a sorgere vari e prevedibili problemi, perché il ragazzino non accetta il fratello e fa di tutto per metterlo in cattiva luce di fronte ai genitori. Trovandosi di fronte ad una situazione insostenibile Monica si vede costretta ad abbandonare il figlio automa insieme a Teddy, orsetto robot. Solo in un bosco, David ricorda la storia di Pinocchio che la madre gli raccontava prima di dormire e, insieme a Teddy, parte alla ricerca della fata turchina.
Tutta la pellicola gioca nel parallelo con la favola del burattino di legno: vi ritroviamo le figure della fata turchina, il grillo parlante in forma di Teddy e Lucignolo nella figura di Joe. Tuttavia tra il significato della fiaba e quello del film le discrepanze sono evidenti. A differenza di Spielberg, lo scrittore toscano non descriveva il burattino con la stessa pietà con cui il regista descrive David, come un essere perfetto in contrasto con il mondo: Pinocchio non era accettato dalla società, ma anche lui, come quest’ultima non mancava di difetti. Nel romanzo, Collodi vuole e riesce a rappresentare una crescita parallela, ossia quella del burattino discolo che modificando il proprio carattere diventa un bambino buono e quella della società che, mano a mano, impara ad accettare il nuovo. David, invece, è presentato da subito come un bambino essenzialmente buono, privo di difetti, che la società degli “organi” (così sono chiamati gli umani dai robot) non vuole accettare.
In questo senso, la visione di Spielberg dimostra un evidente e atavico difetto del cinema americano, e una delle questioni morali che mai è riuscito a superare, relativa al manicheismo con cui esso spesso tratta il tema delle differenze sociali. La storia di David, e il modo in cui essa rappresenta il tema del rapporto tra diversi, è esemplare di quell’ incapacità a descrivere le differenze senza estremizzarle se non in rari casi –come può essere il cinema di Cassavetes – su cui Truffaut invitava a riflettere. Se riguardiamo, in una prospettiva storica, il modo in cui il cinema americano ha trattato questo argomento allora salta subito agli occhi l’esemplarità del tema del razzismo verso gli afroamericani. In un primo periodo, infatti, il cinema americano ha definito i “neri” come i cattivi per eccellenza (famoso il caso di Griffith) per poi, in epoca moderna, capovolgere totalmente questa visione sostenendo la bontà degli afroamericani in contrapposizione all’insensibilità bianca. Nell’opera di Spielberg si presenta il medesimo difetto, sostituendo il dittico neri/ bianchi con quello umani/robot.
Nella seconda parte del film, l’universo del visibile si amplia a tutto il mondo dei mecha e, sempre per seguire la fiaba di collodi, David/Pinocchio sta per entrare in un moderno Paese dei Balocchi. Attraverso l’incontro con Joe, programmato per essere un gigolò, il piccolo scopre un mondo umano, grottesco quanto pericoloso, che gli era stato, fino a quel momento, totalmente estraneo. Nelle notti di luna piena esiste una pattuglia che si aggira nei boschi al fine di catturare quanti più mecha abbandonati sia possibile. In nome dei “figli di Dio” gli automi vengono portati in una sorta di circo, dove sono derisi e infine uccisi da una folla festante. David è rinchiuso in una gabbia e portato al centro dell’arena per l’esecuzione, ma, proprio come nella fiaba, all’ultimo momento viene salvato poiché né totalmente bambino né totalmente robot. Qui nasce quella fuga ai confini del mondo, in cui Joe e David intrecciano profondamente la loro amicizia, che però terminerà nello scenario di una New York apocalittica perchè Joe, sebbene avesse tentato di lasciare il suo mondo festante, alla fine, proprio come Lucignolo, ne rimane per sempre schiavo.
Inizia quindi il terzo episodio della pellicola; la storia fa un salto temporale e David, essendo l’unico essere a metà tra umano e automa, si risveglia dopo duemila anni. Intorno a lui tutto è cambiato il mondo è governato per intero da robot e, tra questi, riesce finalmente a coronare il sogno d’incontrare la fata turchina. Il bambino riesce così a esaudire il suo desiderio più grande, tornare dalla madre per sentirsi dire una prima ed unica volta il tanto agognato “ti voglio bene”.
Quella tessuta da Spielberg è un’opera che vuole evidenziare il problema dell’accettazione della diversità; il regista utilizza l’impianto formale della favola al fine di creare un film per ogni fascia di pubblico. A livello stilistico il regista armonizza perfettamente il dualismo effetti speciali/ritratto dal vero: il ricorso a una scenografia da fantasy non offusca, infatti, il fondo di realismo che permea la pellicola. Come di consueto avviene nella produzione di Spielberg, il ricorso agli effetti speciali è un mezzo per costruire realisticamente il mondo dell’immaginario.
Spostando l’attenzione all’aspetto narrativo, si nota come la sceneggiatura non sia invece priva di evidenti lacune: pur sostenendo un buon ritmo, la pellicola non riesce ad arrivare al cuore della questione, vale a dire a dare una risposta al problema della mancanza d’integrazione tra mondi differenti. Purtroppo il film non ci arriva poiché manca una visione esaustiva di tutti i punti di vista dei personaggi, non solo quello del protagonista dunque, ma anche quelli dei due mondi che vi sono descritti: quello dei mecha e quello degli umani.
Esemplare, a questo proposito, la questione psicologica, completamente sorvolata, del rapporto tra individui; prendiamo l’esempio del piccolo Martin: il bambino, una volta risvegliatosi dal coma, si trova in casa David. Per Martin, David rappresenta l’intruso a prescindere, indipendentemente dal fatto che appartenga al mondo degli umani o dei mecha. D’altra parte anche David, che della storia è il personaggio buono, è delineato in modo forse troppo semplicistico; ad esempio perché se David ha un lato emotivo sviluppato, non comprende le difficoltà che può avere Martin nell’accettarlo?
Forse è proprio l’approccio individualistico alla storia che vede centralmente solo la figura del piccolo automa, a non permettere una visione circolare della situazione; in tal mondo la questione sembra vertere solo sull’accettazione forzata dell’altro senza mai esplorare la terra, probabilmente più ostica, dell’integrazione tra parti.
Nonostante fosse di complessa realizzazione, probabilmente Spielberg avrebbe dovuto almeno tentare tale strada. Intelligenza Artificiale è una pellicola datata 2001, appartenente quindi ad un’epoca, dove la disquisizione dell’ incontro tra mondi differenti è fatto quotidiano, da non liquidare semplicisticamente con il racconto di una vicenda personale. Così strutturato, il film lascia intendere che l’utopia di un’uguaglianza forzata e ricercata continuamente altro non porta che ad un riscatto di tipo individualistico e non, come si dovrebbe, collettivo (come dimostra il finale dove l’unico a beneficiare di siffatta situazione è David).
In tal modo Spielberg dimostra di guardare all’argomento come a una questione irrisolvibile, se non nell’immaginario personale; la pellicola lascia pertanto nello spettatore un senso d’impotenza. Davanti ad una questione già grande di per sé, si ha un ulteriore prova che il sogno di un’uguaglianza forzata è insensato, almeno fino a quando gli esseri umani capiranno che il bisogno principale non è l’omologazione ma la possibilità d’interagire tra diversi mondi mantenendo le proprie peculiarità come doni capaci di arricchire la mente e lo spirito dell’uomo.

NUMERO21 | GENNAIO’10



RAPPORTO CONFIDENZIALE. rivista digitale di cultura cinematografica
NUMERO21 GENNAIO’10
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EDITORIALE di Alessio Galbiati

Il numero è al solito corposo e denso, al solito distante dalle logiche di mercato; non ci troverete i film del momento, che poi in realtà altro non sono che pellicole delle quali ci si dimenticherà in un momento. Dunque sfogliando il numero21 faticherete ad incontrare qualcosa di noto, al limite un paio di articoli vi risulteranno familiari, tutto il resto dovrà trovare la strada del vostro interesse per evitare di provocare sbadigli.

Se ci pensate lo sbadiglio è un fatto davvero contagioso, sbadigliare è un qualcosa che ci trasmettiamo come fosse un virus. Che bello sarebbe raccontare la storia di uno sbadiglio, il suo diffondersi per una grande città ad una velocità incredibile, da persona a persona, e che magari questo stesso sbadiglio alla fine contagi la stessa persona che lo aveva fatto partire. O anche solo tu, che mentre stai leggendo questo editoriale strampalato, ti sei fatto contagiare da questo sbadiglio.

Dunque la speranza è che questo numero divenga un contagioso sbadiglio da scambiare con i vostri amici e conoscenti, e che le visioni in esso consigliate vi riconcilino con il piacere meraviglioso delle immagini in movimento.

Buona visione.

SOMMARIO

04 La copertina di Bennet Pimpinella

05 Editoriale di Alessio Galbiati

06 BREVI appunti sparsi di immagini in movimento di Alessio Galbiati e Roberto Rippa

07 Federico Carra. CONVERSAZIONE. Kiwido edizioni di Alessio Galbiati

14 La natura madre-matrigna. "The Thin Red Line" di Terrence Malick di Alessandra Cavisi

16 Il disincanto di Marco Ferreri di Stefano Andreoli

18 Improvvisamente, troppi inverni fa. L’odissea mai conclusa del disegno di legge sui DICO in "Improvvisamente l’inverno scorso", documentario di G. Hofer e L. Ragazzi di Roberto Rippa

20 Intervista agli autori: Gustav Hofer e Luca Ragazzi di Roberto Rippa

23 LINGUA DI CELLULOIDE RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE. Il decalogo di kristof kieslowski di Ugo Perri

24 Lasciandosi la paura alle spalle. Un documentario del popolo tibetano sulla condizione del popolo tibetano di Alessio Galbiati

26 Kenneth Anger e il New American Cinema di Francesco Bertocco / DIGICULT-DIGIMAG

28 "Les Parapluies de Cherbourg" et "Les Demoiselles de Rochefort" ovvero il musical secondo Jacques Demy di Monia Raffi

30 UNIVERSAL MONSTER. Il fantasma dell’opera, L’uomo invisibile, Frankenstein, Dracula, L’uomo lupo: I mostri della Universal e la creazione di un genere di Roberto Rippa

36 BENNET PIMPINELLA. Eccentrico e graffiante sperimentatore di Alessio Galbiati

44 ABDICAZIONI. l'archivio letterario di Rapporto Confidenziale a cura di Luca Salvatore
Luca Salvatore - De humani corporis fabrica



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La Carriera di Suzanne di Erich Rohmer

Bertrand è un giovane studente di medicina, un giorno, insieme all’amico Guillame incontra Suzanne; la ragazza lavoratrice di giorno e studentessa di sera, si dimostra subito aperta alla nuova amicizia e Guillame, più spigliato rispetto al compagno, la seduce subito. Una sera, però, Guillame inizia a sedurre Sophie, tra lo sguardo cupo di Suzanne e l’imbarazzo di Bertrand.
Bertrand disapprova ogni giorno di più il comportamento di Suzanne, per lui la ragazza non ha amor proprio e si dimostra troppo disponibile nei confronti di Guillame, che presto la scarica, e del resto dell’universo maschile. Pur continuando a disprezzarla Bertrand si ritrova sempre più spesso in sua compagnia e non esita ad approfittarne, anche economicamente; lui è tuttavia attratto da un’altra ragazza, Sophie. Tanto Suzanne è spigliata ed aperta, tanto Sophie è chiusa ed inarrivabile e, per Bertrand rappresenta una sorta di donna moralmente perfetta.
Datato 1963 e secondo dei Sei Racconti Morali, questo mendiometraggio di Rohmer sottolinea in appena 52 minuti la capacità del regista di raccontare storie servendosi dell’ambientazione per delineare la psicologia dei personaggi.
La maggior parte delle scene avviene in interni: dai café parigini, alle stanze in affitto fino ai night-club; questi ambienti vogliono rispecchiare in primo luogo la psicologia di Bertrand: come essi sono cupi e privi di luce così la mente del giovane non è illuminata dal sole della libertà e vive solo di rigidi stilemi morali. L’indignazione nei confronti di una ragazza spigliata, forse dai costumi un po’ libertini, qual’ è Suzanne conferma la chiusura mentale di Bertrand; egli non sopporta i suoi comportamenti, sembra pudico ma, allo stesso tempo, non disdegna la sua compagnia, le cene e le serate da lei pagate e gli appuntamenti a tre con Guillame. Bertrand continua per tutto il film a giudicare la ragazza come fosse esterno alla vicenda, confermando così un comportamento assolutamente borghese.

Cléo de 5 à 7 di Agnès Varda

Cléo è una cantante, giovane bella e di successo. Conduce una vita mondana, possiede una grande casa al centro di Parigi ed ha un’amante; tutto sembra scorrere per il verso giusto, se non fosse che la donna aspetta il responso di un’analisi medica, risposta che non si annuncia come rosea.
Esordio di Agnès Varda nel lungometraggio, la pellicola altro non poteva essere che una storia di donna vista con gli occhi di un’altra donna; quello che a prima vista può apparire un soggetto semplice e, forse, più adatto ad un cinema da mélo, diventa nelle mani della regista –che non va mai dimenticato, giunge al cinema dopo una carriera come fotografa- un’indagine introspettiva che si compie attraverso il visibile.

La pellicola si apre con una cartomante che sta leggendo i tarocchi a Cléo; la donna ha capito quale sarà il futuro della giovane ma è ferma nella decisione di non riferirle assolutamente niente. La fotografia si trasforma repentinamente dal colore al bianco e nero e da questo momento in poi lo spettatore assisterà alla metamorfosi di Cléo.
La prima reazione della giovane è quella di comportarsi come se nulla stesse accadendo, rifugiandosi in un’irrealtà che da sempre caratterizza la sua esistenza: gira per negozi provando cappellini e ritorna in una casa che anch’ essa rappresenta una nicchia irreale, la camera piena di veli e pizzi, l’altalena e i gattini con cui giocare; come appartenenti ad un mondo che nulla ha da spartire con la quotidianità è la visita dell’amante e degli amici che altro non fanno che confermare una situazione dove Cléo non può leggere dentro sé stessa.
Per affrontare il problema Cléo deve tornare Florence, togliere la parrucca bionda e accettarsi come donna vera. Esce di casa ed inizia a passeggiare per Montparnasse; immediatamente il quartiere le appare diverso, le persone non le chiedono l’autografo entra in un bar affollato dove un disco suona la sua canzone che, però, non provoca effetti nella gente. Il mondo le appare finalmente per quello che è, fatto di bene e di male, ma comunque sia di cose tangibili. Come l’incontro con l’amica modella, che non si vergogna di apparire nuda davanti agli artisti che la ritraggono, la quale le fa comprendere come non ci sia vergogna nel mostrare se stessi, di quanto sia meglio apparire nudi per ciò che siamo che nascondersi dietro una parrucca.
E’ il primo giorno d’estate è Florence è in un parco, un parco non lontano da casa sua ma che non aveva mai visto, la vediamo riprendere il contatto con un’altra parte della realtà: la natura. Mentre passeggia il destino mette sulla sua strada un uomo, che, come lei, non ha più tempo. E’ Antoine, in licenza dalla Guerra d’Algeria, per la quale ripartirà tra poco tempo; anche lui come Florence sa che domani non potrebbe più essere qua, in questa realtà che Cléo rifuggiva e che, adesso, Florence accetta.
Prerogativa della pellicola è quella d’immergersi pienamente nella veridicità del reale; come preannuncia il titolo –Cléo dalle 5 alle 7- la Varda fa coincidere il tempo vissuto da Cléo prima del responso del medico (in realtà un’ora e mezzo e non due ore come da titolo, poiché la diagnosi è anticipata grazie all’incontro con Antoine che le fa comprendere come non si debba aspettare quando si rischia di non avere più tempo) con quello che lo spettatore impiega a vedere il film.
La storia è mescolata al reale facendo sì che il percorso di Cléo verso il raggiungimento dell’autocoscienza non avvenga in una riflessione solitaria ma attraverso un continuo confronto con il mondo; la macchina da presa si muove nelle strade in soggettiva e in tempo reale, portando così allo stremo lo stilema proprio della Nouvelle Vague di voler captare la veridicità del momento attraverso la ripresa en plein air.
Cléo de 5 à 7 è un film molto interessante che indaga nell’animo di una donna in connessione con gli agenti esterni e un visibile sempre mutabile; servendosi del cinema come mezzo dualistico che allo stesso tempo è essere occhio sul reale (come lo è una foto) e sull’irreale (grazie alla possibilità di mettere insieme una storia non vera come invece lo fosse), e, insieme, rappresenta un’interessante riflessione sul senso del tempo, di come quello cinematografico possa coincidere, volendo, con quello reale.