Siamo nella Londra di fine ‘800 e Lawrence, attore teatrale affermato, viene richiamato dal padre a villa Tabot per assistere nelle indagini sulla morte del fratello, probabilmente ucciso da una creatura infernale che si aggira nei boschi. In molti credono che l’essere sia stato portato dagli zingari, ed è proprio durante una caccia all’interno del campo che Lawrence rimane a sua volta ferito da quello che in seguito si scoprirà essere un Licantropo.
Joe Johnston realizza il remake di un vecchio horror hollywoodiano degli anni ’40 che ha al suo centro la figura del lupo mannaro, creatura che pur avendo una storia antichissima – le sue origini risalgono alla mitologia greca – in ambito cinematografico non ha goduto della stessa fortuna di altri personaggi fantastici quali possono essere Dracula e Frankenstein.
Riprendendo i classici stilemi dell’horror, il regista da vita ad una pellicola interessante e piacevole alla vista: l’ambiente lugubre della campagna inglese è ricostruito con sapienza e meticolosità e la maggior parte delle scene si svolgono nella penombra di una nebbia densa e misteriosa che favorisce questa sintesi di leggenda e realtà che hanno in seno tutti i miti; non allontanandosi quindi dalla tradizione Johnston utilizza sapientemente anche la computer graphic facendone uso solo quando è strettamente necessario come nelle sequenze di metamorfosi.
La figura di Lawrence uomo-lupo è finemente tracciata attraverso flashback che mostrano un’infanzia segnata dallo spettro delle morte della madre brutalmente uccisa e Benicio del Toro è credibile in entrambe le parti sia di uomo che di lupo. Lo stesso vale per Hopkins, al quale i personaggi malvagi calzano sempre a pennello, favoloso nelle vesti di un perfido padre - anch’esso licantropo - che ha nascosto per anni la sua doppia natura e niente ha fatto per salvare il figlio dall’ospedale psichiatrico e dalla gogna pubblica.
In questa lotta tra bene e male, umanità e bestialità, il degno punto di equilibrio si ritrova nella figura di Gwen, moglie del fratello di Lawrence; la donna, innamoratasi di quest’ultimo, è l’unica che cerca di sconfiggere la bestialità nel suo significato più ampio: la crudeltà, infatti, non risiede soltanto nella forma, nel lupo mannaro che pur uccidendo è anch’esso una vittima, ma è soprattutto quella che segna una comunità ancora strettamente legata al pregiudizio e alla paura del diverso. Come da tradizione sia hollywoodiana che di film di genere, la figura femminile rappresenta la forza conciliatrice che media tra parti e in fondo riesce, in un finale un po’ edulcorato che dimostra ancora una volta la volontà di Johnston di legarsi al classico, a ristabilire la tranquillità senza ricorrere all’uso della violenza ma semplicemente con l’amore.
originariamente pubblicato su Paper Street
Joe Johnston realizza il remake di un vecchio horror hollywoodiano degli anni ’40 che ha al suo centro la figura del lupo mannaro, creatura che pur avendo una storia antichissima – le sue origini risalgono alla mitologia greca – in ambito cinematografico non ha goduto della stessa fortuna di altri personaggi fantastici quali possono essere Dracula e Frankenstein.
Riprendendo i classici stilemi dell’horror, il regista da vita ad una pellicola interessante e piacevole alla vista: l’ambiente lugubre della campagna inglese è ricostruito con sapienza e meticolosità e la maggior parte delle scene si svolgono nella penombra di una nebbia densa e misteriosa che favorisce questa sintesi di leggenda e realtà che hanno in seno tutti i miti; non allontanandosi quindi dalla tradizione Johnston utilizza sapientemente anche la computer graphic facendone uso solo quando è strettamente necessario come nelle sequenze di metamorfosi.
La figura di Lawrence uomo-lupo è finemente tracciata attraverso flashback che mostrano un’infanzia segnata dallo spettro delle morte della madre brutalmente uccisa e Benicio del Toro è credibile in entrambe le parti sia di uomo che di lupo. Lo stesso vale per Hopkins, al quale i personaggi malvagi calzano sempre a pennello, favoloso nelle vesti di un perfido padre - anch’esso licantropo - che ha nascosto per anni la sua doppia natura e niente ha fatto per salvare il figlio dall’ospedale psichiatrico e dalla gogna pubblica.
In questa lotta tra bene e male, umanità e bestialità, il degno punto di equilibrio si ritrova nella figura di Gwen, moglie del fratello di Lawrence; la donna, innamoratasi di quest’ultimo, è l’unica che cerca di sconfiggere la bestialità nel suo significato più ampio: la crudeltà, infatti, non risiede soltanto nella forma, nel lupo mannaro che pur uccidendo è anch’esso una vittima, ma è soprattutto quella che segna una comunità ancora strettamente legata al pregiudizio e alla paura del diverso. Come da tradizione sia hollywoodiana che di film di genere, la figura femminile rappresenta la forza conciliatrice che media tra parti e in fondo riesce, in un finale un po’ edulcorato che dimostra ancora una volta la volontà di Johnston di legarsi al classico, a ristabilire la tranquillità senza ricorrere all’uso della violenza ma semplicemente con l’amore.
originariamente pubblicato su Paper Street